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CHET



Chet Baker, patrimonio dell'umanità. È fuori da tutto, tranne che dalla musica: siamo noi a dover entrare in lui. E allora lasciatevi entrare dentro la mosca bianca del jazz. Chet, che è volato via da una finestra d'albergo ad Amsterdam nel 1988, probabilmente sotto effetto, ma con lui non si sa mai: una volta, si ritrovò un cadavere nell'armadio. Che oggi avrebbe quei 90 anni impossibili da raggiungere: andava oltre ogni abbrutimento, oltre ogni meraviglia.
Un genio ferito, senza limiti. Lo capisci subito che è condannato ad essere come nessun altro, irresponsabile a se stesso come un bambino, malato d'irrealtà come un bambino. Sentite come parla italiano, da autodidatta, in modo inappuntabile e personalissimo. Sentite la sincerità brutale e noncurante, la spontaneità assoluta con cui si dichiara un senzatetto. La libertà di essere pessimo e sublime, senza neppure accorgersi. Eroinomane steso insanguinato nel più squallido bar del più infame locale, ma non l'ha mai vissuto come un problema: “Oh, quello...”. Così come suonava la sua tromba. Così come bruciava tutti i suoi giorni. Quest'uomo era un diavolo che suonava da angelo, ed io non so farne a meno. Non posso privarmi del suo suono, della sua faccia, della sua disperazione e della sua follia. È necessario come respirare nel suo eccesso di umile superbia. È quella faccia, che non puoi lasciare. Sono quegli occhi con dentro abissi, con quella luce nera, da cui non si riemerge. Chet Baker era di quelli che rovinano tutto, che alle regole non ci stanno perché non le conoscono. Era fatto così, era nato così, non c'era altro da fare e lo sapeva lui per primo. Quelle persone che diventano crudeli, che infettano di sé chi gli sta intorno, che spengono vite, ma che, al fondo, sono buone, conoscono la pietà e il dolore. Uno che suona come lui, che canta come lui, non può essere cattivo al fondo. E comunque non me ne frega niente, il rammarico che brucia è di non averlo mai sentito dal vero, forse abbracciarlo, chi lo sa. Ma resta con me ogni giorno, ogni giorno, e mi incoraggia a tentare la mia musica, che è fatta di parole, senza curarmi del resto, alla fine, e da autodidatta. Asciugando le note, scegliendo quelle giuste, scartando tutto il resto. A orecchio e a cuore, sì, io posso provarci. Maestro di ferite, di suono, di canto, di improvvisazione, di impossibilità, di sensibilità e di generosità, come in questa intervista incredibile, diversa da chiunque, insostenibile e irrinunciabile. “Sono qui in questo mondo per fare una cosa e una cosa sola, la musica...”.
La musica, che suonava tra una overdose e l'altra. Un trionfo e un disastro. Da miglior trombettista al mondo, nel 1954, a reietto da bettola con dieci persone a sentirlo. E guidare per seicento chilometri solo per una dose, e abbandonare la macchina dove capita, e presentarsi sul palco lacero, tumefatto, sporco di sangue, e incantare oppure orripilare, dipende dalla sera, dal momento. Suonare senza i denti, buttati giù da due spacciatori per un debito, suonare con la dentiera e bestemmiare perché si stacca. Ma imparare un'altra tecnica, per diventare ancora più anima della musica. Nella musica. In studio, suona con così tanto sentimento che chi è presente non può trattenersi: e lui decide di chiamare quel disco “Why You Shouldn't Cry?”. E non sa la musica, non conosce la teoria, dice “quell'accordo lì”. Nessuno capisce come possa improvvisare, ma se è in giornata i suoi passaggi sono sublimi, le sue intuizioni inarrivabili. “Sei abbastanza bravo per suonare con me?”.
Intossicarsi per disintossicarsi per intossicarsi di più: “Adesso voglio proprio sfondarmi”. Ma non è una posa e in questo sta il suo essere diverso, un incurabile marginale. Lui può funzionare solo così, distruggendosi ogni giorno. “Non ho un posto dove andare, non una casa, un soldo in tasca: posso suonare per te?”. E il suo volto da giovane bello e maledetto si accartoccia, diventa quello di un capo indiano devastato dalle tempeste.
E adesso basta, basta davvero perché, che ci crediate o no, una e una sola lacrima scorre sulla tastiera, sulle dita, una e una sola ma basta per annegarmi in un mare di dentro e anch'io “non può respirare più”. Narra la leggenda, e le leggende ci piacciono perché non sono vere, o forse sì, che in carcere a Lucca, nel 1961, egli chiese solo una cosa, e gliela concessero. Una tromba, la prima che si trovasse, lui suonava sempre con quello che capitava, non aveva questo feticismo dello strumento. Dicono dunque che quando le note di quella tromba tutta rotta uscivano dalla sua cella per attorcigliarsi alla luna irraggiungibile in cielo, i secondini si voltassero dall'altra parte, per non essere visti piangere.

Dedicato a Nazareno Giusti

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