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LORO


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Ti abbiamo cercato, ma come sempre ha deciso il destino. Un viaggio per raggiungerti al capolinea d'occasioni sprecate. E poi ci hai guardato mentre ti guardavamo, ed è bastato. T'avevano scartato, i superstiziosi: così nero con occhi di giada, metti qualche brivido. Ma io amo i brividi, amo le inquietudini, e tu le vai ad artigliare una per una. Sette settimane, un batuffolo d'inchiostro. Non hai protestato quando ho preso la tua gabbia. Non hai protestato tornando a casa. Sembravi perfino impaziente. Forse sentivi che era il posto tuo? Ora t'aggiri, esplori le tue stanze, timido ed incerto, entusiasta e sfrontato. Ci accompagnerai... Le tue sorprese saranno le nostre, e sento già un sottile filo di strazio mentre assaporo il tuo umido, complicato affetto: hai bisogno di tutto, sei fragile come la vita, come l'irreparabilità di tutto ciò che è stato, e che non posso cambiare. L'incosciente gioia del bambino che non abbiamo avuto ce la porti sulle zampe quando mi fissi con il tuo sguardo di mare incandescente, quando mi chiami per poi nasconderti, e allora io t'ignoro e tu mi vieni a prendere. Ruffiano e quasi offeso. Se stai in braccio a me, guardi lei. Se è lei che ti tiene, guardi me. Sei nato paraculo, nero e paraculo. Hai imparato subito: quando mi siedo al lavoro, dovunque ti trovi, te ne accorgi e come un pazzo accorri, rimbalzi per i tuoi tortuosi percorsi, t'arrampichi su me e mi lavi la faccia. Poi t'accoccoli sulle gambe, m'accarezzi con le unghie e ti lasci assopire. Ed io scrivo al ritmo delle tue fusa. Chissà se dirotti i miei pensieri... Sono i primi articoli insieme, ma giuro che non ricordo d'aver mai scritto altro che con te addosso. Così strano, essere adorato da un mistero.

Ma adesso vorrei raccontarvi di quando, una mattina, ho trovato nelle sterpaglie davanti alla Questura un altro piccoletto addormentato, nero nero, grazioso come il mio Nerino. Non ce l'ho fatta a rimuoverlo, non sapevo dove, come, fuggivo via come un ladro e ogni volta tornavo e ogni volta di quel corpicino ne restava meno. Dopo una settimana si distingueva solo la figura. Poi la natura ha cancellato tutto. Anche il mio senso di colpa. 
E vorrei dirvi che ho cominciato tardi, ma poi non mi sono fermato più: tanti gatti ho incontrato, qualcuno per la vita, altri per un giorno o uno sguardo, ma tutti hanno lasciato qualcosa dentro me. Ciascuno ha cambiato qualche cosa in me ed io non posso dimenticare la strana sensazione di mistero, un mistero complice e vertiginoso ogni volta che ho sentito arrivarmi la loro vibrazione, un codice che non posso decifrare ma del quale capisco tutto. 
Questi animali sono soli, sapete. Soli con la loro libertà. Soli col loro sforzo di parlarci. Con il loro amore inspiegabile e invincibile, che ci lasciano anche quando sono tornati al loro paradiso. Vanno a scaldarsi sulla riva del cielo e tu senti che ti guardano, come quando li incontri per strada, dietro a un vetro.
Io lo so, mia sirena, cosa mi vuoi dire: che sono solo animali, e che sono patetico. Io non lo so adesso perché vi racconto queste cose, ma non ho nessun altro per sciogliere il rovo di spine che mi sento in gola, punge tutta la mia tenerezza. E quando mi sento così io vado al porto, spengo la Vespa, ascolto una voce che non so, quella dei ricordi, dei fantasmi, non lo so, ascolto la musica dell'acqua a sbattere dolce contro i pescherecci che oscillano pigri e si sfiorano in una danza d'incatenati bestioni, ascolto i gatti che passano tra le reti, tra le bitte, i gabbiani che nel sole s'inseguono urlando. Fino a che scoppio. Allora trovo la forza di tornare. Passo davanti alla carcassa della barca decomposta, enorme, di un colore rugginoso e scrostato, il costato putrefatto delle assi scoperte, la barca dimenticata dagli uomini e dal mare e dal tempo, relitto di un relitto, inutile perfino da rimuovere. Non so che nome avesse quando fiera solcava il mare, ma so il nome che vorrei darle io adesso. “Vita”.

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