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LE PECORELLE


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Sono saltati fuori altri dieci luridi, dieci pecorelle che si accanivano sul pensionato di Manduria morto di terrore e di stenti lo scorso aprile. Questo è il testo che ho letto lo scorso 2 maggio a Nervesa, durante il reading con Paolo Benvegnù. Vorrei portarlo in giro più spesso, ma non ho occasioni, mi ci vorrebbe un manager e io non ce l'ho e sono stanco di sbattermi. 

Come si chiamava il pensionato invalido morto ammazzato a Manduria dopo mesi, anni di torture da un branco di quattordici scellerati, quasi tutti minori, ma due già sui vent'anni? Se ve lo chiedo non lo sapete, magari l'avete anche sentito nominare, ma non lo ricordate, si tira via, si cerca di rimuovere. Un pensionato, un operaio, un disabile, mai cresciuto anche quando lavorava, abbandonato a se stesso quando non ha più potuto. E lui stava sempre più barricato nella sua casupola, ma non poteva difendersi dal terrore quotidiano di quegli aguzzini, giovani e già infami, che lo pestavano, lo umiliavano e filmavano tutto e ridevano, si divertivano. Era un balocco e quella era diventata la sua vita. Quella e nessun'altra. Senza un giorno di tregua, Natale o ferragosto che fosse. Nell'isolamento spietato di un paese che non voleva vedere. Finché l'hanno portato all'ospedale, due operazioni ed è morto e il giudice ipotizza l'omicidio preterintenzionale e ha ragione: perché si muore di botte, di inedia, ma di più si crepa di annientamento quotidiano, di solitudine, di non sentirsi più uomo, trattato da uomo, risparmiato per quel residuo rispetto che si deve a ogni uomo. Ma il pensionato non era più un uomo e neanche un animale e neanche una pianta. Era una cosa, da prendere a calci contro la noia, come una lattina, un vetro da spaccare. E poi i cocci si spazzano via in fretta e tutto rimane com'era. Sale uno schifo profondo, nel sentire le giustificazioni di tutti per tutti: non voleva aiuto, non chiedeva niente, abbiamo segnalato. A chi? Dove, quando? Ve lo dico io, come il paese si è preso cura di questo reietto: mormorando, compatendo, disprezzando, voltandosi dall'altra parte, forse qualche spiffero ai carabinieri, che ovviamente sapevano ma anche a Manduria, si sa, ci si conosce tutti, a che scopo intervenire, incrinare consuetudini? Solo perché un povero animale spaventato in una casupola serve allo sfogo dei nostri ragazzi? Quei ragazzi che frequentavano l'oratorio, e l'oratorio sta di fronte alla casa del terrore. E adesso predica il vescovo Pisanello: aiutare i giovani lungo la riscoperta dei propri doveri. E su, Pisanello, che anche tu fai il Ponzio Pilato. E il parroco: noi avevamo suggerito, con discrezione, avevamo segnalato, ma... Ma dovevano pensarci i militari. E i militari: noi non avevamo coscienza dei fatti. E i servizi sociali: ah, ma noi abbiamo parlato del bullismo a scuola. E i familiari aggrediscono i giornalisti molesti. E le mamme coraggio appena gli toccano i tesori: eh, quante storie, non è colpa loro, qui non c'è niente, ci sono i bar, lasciateli in pace, sono i nostri figli. I nostri mostri. Quanto schifo sale da questa autoassoluzione incrociata, quanta rabbia dalle cazzate dei commentatori da talk show, vanno compresi, vanno aiutati: le vere vittime sono gli assassini, come sempre. Quanta vergogna in quel fastidio che neppure nasconde il disprezzo: ma sì, era solo una cosa, uno scemo, che campava a fare. Quanto disprezzo per la solita fiaccolata col cadavere steso nell'obitorio dell'ospedale, dove nessuno – nessuno – va a guardarlo. Perché bisognerebbe guardarlo nelle sue ferite, nella sua maschera di sofferenza che nemmeno nella morte trova requie, un uomo trasformato in vetro, vetro da spaccare. Affondato nella sua merda, nelle scatole vuote, rifiuto rifiutato da un paese. Dice il procuratore di Taranto: ci andremo pesante, quest'uomo meritava solo un po' di pietà. E mente, sapendo di mentire anzitutto a se stesso: le leggi impediscono qualsiasi giustizia, su tutte quella legge ferrea che è la morale corrente: sono minori, vanno salvati, verranno accompagnati nella comunità dei balocchi da qualche prete sociale, una manciata di settimane dove saranno lasciati liberi di riposarsi, se vogliono anche di drogarsi, perché così funziona, credetemi, e poi verranno restituiti alla società: sono pentiti, sono recuperati, hanno capito. E la rimozione sarà compiuta. Perfetta, scintillante. Lucrosa, perché è chiaro che per ogni pecorella smarrita lo stato riconosce una retta giornaliera, la solidarietà è un affare come un altro e non manca chi ci fa i milioni. E così il senso di irritazione – non di colpa, non scherziamo – per una indulgenza verso i mostri che non è né di destra né di sinistra: è familista, è il solito sporco gioco per cui il sangue guasto del proprio sangue viene prima di tutto, è intangibile, fatevi i cazzi vostri. Nello scaricabarile tra clero, carabinieri, istituzioni, brava gente che fa la fiaccolata sta il sollievo dopo l'animale morto ammazzato, bruciamo i nostri lumini e non parliamone più. Non è colpa di nessuno, anzi sì, è colpa di chi ha rubato il futuro ai nostri figli, sentite come suona bene, come è impossibile da discutere. Anche se quei figli non debbono fuggire nei rifugi sotto le bombe, non crepano, non hanno il problema del pane e neppure di cercarsi un lavoro ma solo di ammazzare il tempo, e se dentro il tempo ci sta un pensionato uscito di cervello, ammazziamo anche quello: che colpa ne hanno loro, pecorelle smarrite che non pagheranno mai? Era solo un gioco, hanno spiegato: torturato per una notte intera, preso a bastonate, ripreso mentre agonizzava. Bisogna capire, lì non c'è niente. La sorte di quella cosa, quella lattina da schiacciare era segnata da anni, ogni giorno lui veniva ucciso nella feroce indifferenza di tutti, nessuno escluso. Antonio Cosimo Stano, si chiamava.

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