Avevo tre anni e le
braccia di gesso per non ferirmi in gola. Mi avevano appena ricucito
il palato, così da regalarmi le parole mai nate in quella voce che
disperatamente chiamava, e ogni pomeriggio io venivo abbandonato: i
miei genitori, scaduto il tempo della visita, mi lasciavano e
vedendoli sparire dietro il vetro urlavo, urlavo nel sole del
tramonto. La suora bianca mi riportava in corsia e stretto nel mio
pigiama davo via i giocattoli, inutili ninnoli, a chi me li chiedeva,
per rabbia e per paura, perché ero perduto lì dentro, perché non
ho mai saputo dire di no.
Avevo dieci anni e una
fidanzatina che non avrei mai lasciato. Quando pioveva ci rifugiavamo
sotto al salice in giardino e Carluccia mi tempestava di baci ed io
mi sentivo al sicuro, adulto, grande. Era tutto lì, la vita era
quella, non serviva nient'altro. La vita era quell'estasi completa,
assoluta, che ci rendeva immensi. La portarono via, in un posto
nuovo, e quando tornava a trovarmi io ero freddo, ero cattivo perché
lei mi aveva tradito e la nostra eternità era finita. La vedevo
andar via e tornavo sotto al salice e piangevo, piangevo nel sole del
tramonto.
Avevo una casa che era il
mio nido. Tutto di lei amavo, ogni mattonella, ogni piastrella. Tutto
lì dentro cullava la mia serenità, ovattando il mio male di non
vivere che a volte esplodeva in tempeste di sensazioni. Mi portarono
via, in un non luogo senz'anima, dove non c'era vita. Mi ammalai
subito, nel fisico ma saliva dall'anima, e arrancavo, arrancavo nel
sole del tramonto che aveva luce di sabbia.
Avevo una città che era
la mia anima. Dovetti lasciarla e da allora sono un profugo. Migrante
senza ritorno, terremotato infinito. Qui, dove esisto, non sono mai
vissuto. Qui io non capisco, e non mi capisco. Qui niente mi è mai
appartenuto, non una strada, un albero, un attimo di gioia. Non un
solo respiro di me stesso. E ogni volta che dal finestrino del treno
io ripasso davanti al mio quartiere, nella mia città, io rivivo un
istante per subito morire. Da allora ho versato lacrime sgomente, su
cento balconi del mio tempo, ogni sera nel tramonto.
Avevo una fidanzata, più
grande di me, lasciai tutto per lei. Era l'alibi alla rinuncia alla
vita. Dopo cinque anni con un pretesto se ne andò, d'improvviso non
volle più parlarmi, più vedermi e le bugie servivano a coprire i
troppi uomini che la mantenevano. Ed io crollai, perché a quel punto
non mi era rimasto niente, neppure il presto di trovarmi dov'ero,
sperduto in un deserto di solitudine. E ho vagato urlando senza
parole, come quando ero muto, ogni alba e ogni tramonto, senza cani
che raccogliessero il grido.
Ogni volta che la vita mi
ha strappato da qualcosa, qualcuno, io ho capito che ero un gatto di
strada. Ogni volta che ho provato l'abbandono, io me ne sono sentito
divorato. E fare la linguaccia alla vita mi ha aiutato, ma fino a un
certo punto. Perché troppe volte l'ho vissuto, l'abbandono. Perché
non lo merito, perché non ho mai abbandonato nessuno, perché è
troppo ingiusto, non importa da chi, un amico, un amore, un lavoro.
Un bisogno di me. Ed io lo so che non posso fidarmi, che un giorno
resterà solo vuoto, una tenda che si muove nel vento, una mancanza
insanguinata. Ma non imparo mai, un raggio di sole basta a illudere
la mia insanabile voglia di sperare. E così verrò irriso una volta
di più per la mia diversità. Verrò umiliato per questo cuore che
non sa crescere. Verrò ucciso a freddo, senza una ragione, senza una
parola, così come si lascia una bambola malata al cassonetto. E
allora mi guarderò le braccia e ancora le troverò di gesso e non
avrò più a chi regalare i miei giocattoli. E dopo, guarire sarà
ancora più difficile. Più impossibile, se di notte io bevo il buio
con occhi da ospedale e il mio cuore è una ragnatela di cicatrici.
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