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E SE LA FACESSIMO FINITA CON L'AGIOGRAFIA DEL "BLASCO"?


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Usa molto idolatrare, addirittura venerare Vasco Rossi, quello che aveva il “fegato, fegato spappolato”. Forse perché il successo rende simpatici, come diceva Charlie Chaplin, o forse perché nel sistema dei media governati dalla pubblicità quasi nessuno può permettersi di dire che il re è nudo. Ah, Vasco, 29 volte a San Siro, sei concerti di fila, come lui nessuno, neanche le rockstar straniere. C'è molta, molta ambiguità nel peana continuo al “Komandante”, di cosa non si è capito, conosciuto anche come il Blasco, che con Ibanez, quello di “Sangue e arena” c'entra niente e i fan neppure lo sospettano. Rossi, come tutti quelli esplosi tra i Settanta e gli Ottanta, fa né più né meno la stessa cosa degli illustri colleghi: si amministra, gioca sulla sua immagine, a pendolo tra le vecchie trasgressioni e il banale, stucchevole falso buon senso di oggi: “Questo mondo non mi piace”. Tremate, Vasco ha scagliato il suo anatema, ovviamente vago, non precisato, come usa molto oggi, tempo di idoli facili, di Cassandre immature, di coscienze tutte da interpretare. Ma nel mondo che non gli piace Rossi ci ha sguazzato, cavalcando una carica sovversiva più apparente che reale, fatta di vita spericolata, di quelli che poi muoiono presto, anche se poi non morivano.
Ieri spericolato, eccessivo, più o meno, oggi grande saggio, grande vecchio. Ma di che? I suoi concerti ormai sono liturgie ispirate a un buonsenso facile e un po' statico, con tanto di invettive ai potenti, come se lui fosse ancora il marginale di una vita fa e non uno che si muove in jet privato, finanzia una casa motociclistica e diversifica gli investimenti da quella multinazionale personale che di fatto è. Ma i devoti ci cascano, bevono tutto, acriticamente convinti della sua santità, del suo disagio esistenziale fatto di quella saggezza che nasce dal sacrificio: “Mi si escludeva”, per dire ero quello sbagliato, quello marchiato. Ma avevano smesso di escluderlo nel 1982, a 30 anni, da allora non hanno fatto che coccolarlo, media, critica, pubblico, tutti. Ma che senso per una rockstar giocare al vittimismo, posto che il rock, per dirla con Mick Jagger, “deve essere pericoloso, altrimenti non è”, o, per dirla con Ronnie Wood, “non ha senso piagnucolare e predicare”, che in due parole significa: siamo quelli che siamo stati e rinnegarci o giocarci sopra è indecente perché quello che siamo stati ci ha portato a vivere una vita sconosciuta all'umanità dei normali.
Il Vasco Rossi che diffida dei potenti e del mondo così com'è è uno che si è concesso a tutto, anche alle compagnie telefoniche; da quanti anni i suoi dischi sono innocui, pura routine, senza più quel guizzo, almeno un guizzo, dell'antica ribellione, non si dica trasgressione? Da quanti anni il suo disagio tradisce uno spleen da domenica pomeriggio di provincia? La verità, che nessuno può permettersi di dire, è che il Blasco, o Komandante, o come vi pare chiamarlo, quello che aveva da dire ha finito di dirlo intorno alla metà degi anni Ottanta: dopo è stata tutta ordinaria amministrazione e non c'è niente di male, sia chiaro: basta saperlo, basta ammetterlo. Non è una colpa sapersi vendere nel modo migliore, sapere stare al mondo “che non ci piace”, studiare le strategie promozionali giuste, con la dovuta malizia, e riuscire a convincere nuove legioni di adolescenti. Si chiama mercato, ogni artista è tenuto a farci i conti e i più bravi restano. Ma per favore qualcuno ci chiarisca in cosa la star sessantasettenne sarebbe ancora un cantore dell'inquietudine giovanile, una versione credibile della musica rock. Forse perché, di tournée in tournée, riveste le sue canzoni, i vecchi inni ora di una improbabile patina heavy metal fracassona, ora di sonorità spacciate per “punk”?
Il quasi settantenne signor Rossi è oggi uno che, dopo allarmanti vicende legate alla salute, si costringe a quattro, cinque ore di esercizi fisici al giorno, un ipersalutista che non può più toccare alcuna sostanza pericolosa, incluso l'alcool, e, ancora una volta, non c'è niente di male se perfino Keith Richards, col suo cervello tenuto insieme da 7 placche di titanio e da overdose di Vicodin, ha dovuto darci un taglio con le sbronze e perfino con le sigarette. Il punto è la credibilità che ancora puoi offrire quando interpreti il te stesso giovane e scapestrato, quando canti “Siamo solo noi”, “Vita spericolata” o “Sono ancora in coma”. Il punto è quello che c'è stato prima e che è venuto dopo. O che non è più venuto. Vasco ha saputo essere credibile con l'arma di canzoni fatte per restare e nessuno questo lo discute, ma oggi è un pacato signore che alza il volume per non dire niente di interessante, niente che colpisca davvero. È uno che sostiene di voler cambiare il mondo, che avverte i ragazzini come un nonno affettuoso: non si può sempre accelerare, esagerare è sbagliato. Dopo averci costruito sopra il mito. E, ogni tanto, finge di ricordarsi che è stato un maledetto. I ragazzini gli credono, ed è notevole questo suo durare in eterno, impermeabile alle mode, ai gusti, ai trapper, al riflusso, al riciclo. Tanto di cappello, ma ci si lasci il diritto di dire che è una messinscena, che di canzoni memorabili non ne arrivano più da decenni, che dal “non fidarti di me” degli anni ruggenti al “di me ti puoi fidare” di oggi c'è uno spazio un po' deprimente, che l'ordinaria amministrazione non la cambi coi palchi faraonici, le megaproduzioni e le scomuniche open space. Vale per tutti, anche per il “Komandante”. E pazienza se non si può dire, se quello che “lo si escludeva” oggi è un intoccabile, uno che esclude, lui, ogni voce critica, una multinazionale con sede a Los Angeles che ammette solo la propaganda globale dei patetici, inutili Mollica.

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