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INFINITI



Ieri una persona che pensavo sincera quando diceva di volermi bene, e alla quale ho donato mari di amicizia, non sapendo come offendermi mi ha crudelmente rinfacciato la mia “depressione”, a suo dire per la mia incapacità di scherzare: avevo obiettato sull'opportunità di lasciarsi irridere con certi modi davvero volgari, sessisti. Ma si sa che più si strepita per qualcosa e meno lo si difende nel proprio intimo. Questa persona, che in pratica mi ha accusato di essere malato e irrilevante, vale a dire non introdotto negli ambienti in cui si sta al mondo (cioè in televisione), mi sono accorto, di me non sa niente. Non sa che volendo io posso essere il più triviale degli uomini, e che per larga parte della mia gioventù sono passato per quello eccessivo, senza freni, senza limiti anche nello scherzo. Ma c'è un'età per tutto, e c'è l'esperienza che, lasciando cicatrici, fa pulizia di tanti eccessi, di tanta stupidità. Oggi ci ripenso, a quella “depressione” ricevuta in faccia come uno schiaffo, trovandomi bersagliato di citazioni dell'Infinito di Leopardi. Giacomo, l'immenso depresso, che dal suo sottovivere che poi era solitudine mai accettata, bisogno disperato d'amare, incapacità di rassegnarsi a un corpo e un destino ingrati, ha spremuto i versi più alti che mente umana potesse concepire. Ed è vero: ogni composizione è figlia del dolore, palpitante o asciugato che sia, quando si è felici non si crea niente di buono. Leopardi dalla camicia di forza della sua anima non poteva che liberare parole come farfalle nere, destinate a risplendere per l'eternità, a consolare ogni sofferente con la loro ispirazione. Perché L'Infinito è per tutti. Parla a tutti, compromette chiunque; nessuno può restarne impermeabile, non c'è uno sulla faccia della terra che non intuisca, confusamente a suo modo, cosa succede quando “per poco il cor non si spaura” e l'epilogo è un atroce dolcissimo “naufragar in questo mare”. È il mare di se stessi, della propria vita di medusa, che lascia sfregi e strisce ovunque, lascia ricordi che non smettono mai di sanguinare, sono lì, si placano a volte, ma tu sai che torneranno a vomitare lava di dolore. Ora, per vivere io scrivo. Ho sempre fatto questo. A volte anche leggo me stesso, leggo quello che scrivo. E quello che ho da dire non è mai felice. Però, mi accorgo, scalda. Consola. Gli uomini, alla fine, cercano la felicità che sanno di non poter trovare, ma anelano a quello sgomento che viceversa non li lascia mai, e si aspettano che qualcuno possa raccontarlo anche per loro. Io ci sono rimasto male, per cosa ho ricevuto: ma non sento vergogna per questo mio dono di saper vedere il dolore anche per gli altri. È come una vibrazione, si agita negli occhi, nei gesti e lo riconosco subito. L'ho riconosciuto, cercando in tutti i modi di arginarlo, anche in chi poi me l'avrebbe rinfacciato. Mi porto addosso la mia lettera scarlatta, il mio tatuaggio di sofferenza che diventa compassione, e mi consolo pensando che il più grande di tutti veniva disprezzato allo stesso modo, eppure, duecento anni dopo, il mondo è ancora qui, appeso alla sua meravigliosa angoscia fatta di “interminati spazi”, di “sovrumani silenzi”. Di amore caduto per terra, lasciato lì a morire. Eppure vivo finché l'ultimo degli uomini sarà vivo.

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