Sento la notiziola di un
piccolo team di ragazzi italiani che tramite crowdfounding hanno
fatto un film sulle origini di
Harry Potter, raccogliendo sette o otto milioni di visualizzazioni su
youtube. Bene, sono contento per loro, ma perché me la debbono
spacciare come “operazione no profit”? Sempre questa rottura di
coglioni del no profit, il profitto come peccato mortale, lebbra che
non si estirpa, che vergogna il profitto, è rapace il profitto, si basa sullo sfruttamento (ma chi l'ha detto?), vuoi mettere la nobiltà dell'arte per l'arte, di un altro mondo è possibile e tutto
il resto dello sciocchezzaio informativo. Non ho mai conosciuto
nessuno che creasse qualsiasi cosa per non guadagnarci, ho conosciuto
gli ipocriti che questo sostenevano. Ho conosciuto artisti bravi ma
disperati, svuotati perché non riescono a mantenersi e se c'è uno
che li capisce quello sono io. Ho conosciuto gente delusa, disillusa
proprio per la mancanza di un profitto che non è solo dignità
economica, quindi sociale, ma anche conferma, in una certa misura,
della corrispondenza dal pubblico. Il no profit, insomma, uccide: è
il non ricavare un profitto, che distrugge tutto. Non l'averlo. Guadagnarci è al contrario il necessario propellente per fare sempre meglio, e per poterlo fare. Per
questo io dico sì profit, magari profit, please profit. Scrivo, faccio libri
autoprodotti in ebook, e spero di venderli, anzi ci spero come non
mai visto che ho urgente bisogno di acquistare un paio di
indispensabili strumenti tecnologici senza i quali non solo non
profitto, ma non lavoro affatto, dunque non campo. Spero di essere
letto, e acquistato, e di reinvestire in ciò che mi serve, e, se ci
scappa qualcosa, di dedicarmi una cenetta brindando al mio profitto;
già che ci sono, ne approfitto: iscrivetevi al Faro, scaricate (a
pagamento) i miei libri, eccetera. Sì profit, viva il profit.
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