C'è un gruppo che da una
ventina d'anni suona chiuso in una cantina, nel suo furgone, nel
tempo di mai. Condannato ad una autoproduzione irreversibile, ad una
autonomia da cantina esistenziale che è croce e delizia, gli ha
impedito le grandi ribalte e gli ha guadagnato una fama di coerenza e
indipendenza da un agguerrito drappello di sostenitori dalle Alpi a
Capo Passero. Lo stesso che ha consentito l'ultimo sogno. I Cheap
Wine sono marchigiani, pesaresi, il loro immaginario resta l'America
delle grandi arterie dove ti annulli in mezzo al nulla, lunghe epiche
traversate alla ricerca del te stesso che non sei, perché ti
fermerai già diverso da come eri partito; ma quell'immaginario si
declina poi nel sole e nelle brume adriatiche, tra il mare e la
Statale negli orizzonti soffocanti e profondi di chi soffre qua.
Dreams, ultimo nato grazie al crowdfounding, chiude la
trilogia della disperazione, passata dallo sgomento (Based On
Lies) alla rinuncia (Beggars Town), fino alla catarsi e
qui li aspettavamo. Perché per chi soffre fino alla feccia, una
catarsi c'è sempre.
Musicale, anzitutto. I
Chep Wine erano, sono bravi in quel gioco immaginifico che va dal
commento emozionale all'inno, ma a questo giro hanno imparato la
malizia: sanno escogitare, e non più ne hanno scrupolo, la cadenza
assassina, come nell'apertura di Full Of Glow, il gancio che
ti ammazza, il ritornello nel cervello, dulcis in fundo la ballata a
cui non sai resistere. E di ballate ce ne sono in Dreams, più
che in passato. Ma non si pensi a un disco facile, ruffiano.
Tutt'altro: non sono mai stati così oscuri, così gotici. Sarà una
catarsi, ma ricorda bene tutto l'abisso da cui sale. La polvere è
scura, non si capisce se per lo smog o per la notte che viene.
Verrebbe da dire che
hanno finalmente imparato a suonare come professionisti, ma
l'avverbio è certo ingeneroso e poi la loro intransigenza di
sognatori resta intatta. No, qui c'è qualcosa di meno e molto di
più. C'è un gruppo dove i singoli non strafanno mai, sono sempre al
servizio dell'entità, si tratti di passaggi di chitarra che
rievocano, se Michele vuole, quando vuole, ora Mick Taylor, ora Mark
Knopfler, o di strisciate di organo con cui Alessio ricama riff da
epopea del rock. C'è la voce di Marco, che frontman si fa coscienza
collettiva, non più arroccata, invece arrocchita al punto giusto
perché la classe è classe e anche sfoggia un bel 1966 all'anagrafe:
la pronuncia rigorosamente inglese è ormai servita a puntino (in
italiano, i fratelli Diamantini non si produrrano mai: facciamocene
una ragione), e il ragazzo canta in un suo modo strano: come uno a
cavallo tra il cinismo della rassegnazione e lo sgomento d'aver
trovato a chi affidare il suo lascito.
L'eredità dei Cheap Wine
sono loro stessi: niente di meno e niente di più. Sta nei 12 dischi
finora, in questo libro a corredo che ripercorre la loro cavalcata
sempre faticosa, ingrata ed esaltante; sta in questo ultimo album che
è probabilmente il loro migliore, e trovatene altri che dopo due
decenni spesi a cavalcare una strada di vetri e chiodi d'illusioni,
riescono ancora a surclassarsi – partendo da standard già molto
alti: chi ha confidenza con gli strumenti, chi suona e sa ascoltare,
capisce immediatamente di cosa parliamo. Questione di impasto, di
soluzioni calibrate, rarissimamente annunciate, seppur in un genere
che, a spanne, va da Neil Young e compagni ai redivivi Dream
Syndacate passando per il compianto Tom Petty senza negarsi spruzzate
di Rolling Stones periodo Sticky Fingers. Potente. Dolente. Oscuro.
Una musicalità rinnovata e una consapevolezza diversa.
La catarsi: avere un
(primo) figlio nell'età della ragione può essere destabilizzante
per un musicista, ma quando Marco canta un verso insidioso come
(traduciamo) Se riuscirai a volare per il cielo un giorno/Ti
accorgerai che il dolore non è nulla, tu capisci che quell'uomo
è rimasto più figlio di suo figlio: saprà difenderlo, come è
giusto, ma non saprà mai difendere se stesso. Dreams, nel suo
colmo di significati e significanti, in quel voler essere a tutti i
costi, è un disco fuori dal tempo, un album obsoleto. Perché il
tempo, oggi, è quello degli Spotify che dettano legge e ai
produttori impongono le regole per costruire i brani, passaggio per
passaggio, minuto secondo per minuto secondo, suono dopo suono; è il
tempo degli artisti che diventano artisti senza esserlo mai stati, e
senza che lo saranno mai. Proprio per questo, Dreams è
scandalosamente attuale: ricevine le vibrazioni in macchina,
traversando un qualsiasi presepe vivente, e nel volto di sconforto
del bottegaio in vana attesa dietro la sua vetrina, nelle teste
all'ingiù dei passanti spenti, in quell'aria svuotata che li avvolge
e che tutto avvolge, che tutti ci schiaccia, avrai trovato la colonna
sonora di un presente ignobile; ed è commento musicale che va bene
per un qualsiasi agglomerato, nell'America sprofonda come per i
villaggi adriatici, italiani che costellano un Paese sconfitto. Un
messaggio per un bambino che nasce, onesto fino alla brutalità, ma
allo stesso tempo l'invito, quasi imperativo, a non smettere il sogno
della speranza.
Un disco terribilmente
ispirato, concepito per esistere, per resistere, per non passare
inosservato, per non passare. Come si usava una volta. E, come si
diceva una volta, l'unica commento possibile è col rasoio di Occam,
tagliando via le ipotesi, gli orpelli, le elucubrazioni: un disco
della Madonna.
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