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PICCOLA ODE MUNICIPALE


Cos'è che mi manca maggiormente della città dopo 35 anni che l'ho lasciata? Direi la dimensione pubblica, municipale, il senso di una appartenenza che non era campanilistica, che poteva ricondurre ad unità il gran casino di umani a scavalcarsi e attraversarsi, sempre più disumani. Qualcosa che, con la globalizzazione postindustriale e neocapitalistica, forse sarà sparita - a Roma non sopravvive che degrado, vergogna senza vergogna - ma che io riesco ancora a percepire, forse per forza di nostalgia, ogni volta che ci torno. Sempre più a fatica, ma ancora ci riesco. Anche per sottrazione, mi pare, per contrasto: nei posti piccoli, dove sono ormai confinato a vita e da una vita, un ubi consistam comune, spartito, non c'è mai. C'è quel prolungamento della sfera privata, le seggiole davanti alla soglia, che seduce i poeti ma è la negazione feroce di una condivisione: se qualcosa è mio oltre la mia proprietà, finisce inevitabilmente per cozzare con il tuo, il suo che rivendica la medesima estensione e che ostruisce, impedisce ogni spazio intermedio, lo annienta. Dove qualcosa appartiene in esclusiva senza limite, il limite è il totale disinteresse di tutto quello che ne sta al di fuori. Qui non c'è una sostanza che è di tutti: ci sono spazi contesi, c'è un senso localistico morboso, ma nessuna consapevolezza civile davvero definita, realmente matura. C'è un'idea del possesso, e lo dico senza malizia, che risale per i rami e i torrenti della tradizione ma non si apre alle problematiche nuove, diverse, imposte da un modo di convivere sempre più complicato, sempre più articolato anche per effetto delle migrazioni di massa. Da cui una sorta di diffidenza ora aperta ora strisciante, che non sarà razzismo ma che molto gli si avvicina. “Quello che è nostro” si risolve in “quello che è mio” ed è una schematizzazione discutibile, ma che non si presta ad essere messa in discussione perché diventa fatto personale, il locus come enclave che protegge e insieme respinge, rifiuta. Arrivati qui nel 1984 restavamo esterrefatti nel sentirci continuamente aggredire a prescindere, “Che volete, che credete di fare voi che venite da Milano, qui comandiamo noi e se non lo capite sono botte, sono mazzate”. Io e mio fratello ci guardavamo stravolti, ci abbiamo messo anni ad accettarla come reazione fisiologica e questo accade dove tutto è vissuto in senso personale, come fatto personale e non c'è una zona franca a fare da cuscinetto, da collegamento. Nei paesi non puoi parcheggiare l'auto davanti ad una casa, anche se non c'è passo carraio, perché escono protestando e se fai notare che lo spazio comune è comune, è di tutti, tornano fuori col martello. Tutto è terribilmente personale, ma oltre la gabbia del personale resta poco e niente. Un'altra cosa ostruisce la percezione municipale nei borghi, nei villaggi marinari o montani, comunque di estensione irrisoria: la troppa bellezza, quella cornucopia storica, quella dovizia artistico-architettonica che oscura qualsiasi altra dimensione. Sì, certo, lo ius loci, il genius loci, ma poi un'opera d'arte appartiene al mondo e un comune può tutelarla, può ricordare al mondo dove sorge e chi ne porta il crisma ma la seduzione del bello s'impone di per sé, metterci sopra uno stigma è come sfregiarla. Per me, il senso municipale era qualcosa di molto più terra terra ma, proprio per questo, pervasivo. Stava nello stemma sopra l'autobus e nella forma del tram, nelle fermate della metro che collegavano la città della luce con quella dell'infero, stava sulla vetrata del presidio per le vaccinazioni, in facciata di ogni scuola, spiccava sopra ogni casco di vigile, in tutti i giardinetti di ogni rione, microcosmi distinti ma con panchine, giochi, simboli comunali identici, riconoscibili, un filo rosso che legava zone lontane, diverse. Voglio dire che, senza avvertirne il peso, avvertivo però la presenza dell'organismo civile, del suo orgoglio non localistico dappertutto. E mi sentivo più che protetto, mi sentivo di appartenere; disperso nella moltitudine mi orientavo e potevo esistere.

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