Non
conosco altra gente abituata a ricevere pensieri come quelli che mi
arrivano, non credo ce ne sia. Questi messaggi non nascono dal
niente, sono sfoghi che fanno male anzitutto a chi li scrive. Ce ne
vuole per mettersi lì, lasciarli uscire, metterli insieme, mandarli.
Affidarli. Nascono da altri scritti che a loro volta non vengono da
soli, non sono figli di nessuno: la loro paternità sta nel dolore,
nella solitudine. Nella sincerità. No, non mi pare di conoscere
altri che abbiano con chi li legge un rapporto così viscerale. Che
consuma. Che uccide e tiene in vita. Che è come una droga. Che mette
un senso là dove un senso non c'è, dove stanno soltanto sconfitte.
Che toglie un senso là dove lo avevi trovato. Ci sono tanti che si
credono grandi giornalisti, grandi scrittori e invece sono solo
robot. Fotocopiatrici. Dattilografe, o megafoni. Hanno successo,
stanno dappertutto, ma sono inconsistenti. Prede delle loro stesse
proiezioni, in cui si perdono. Dei loro troppi padroni, prima fra
tutti l'ambizione che non si sazia mai, che più mangia e più ha
fame. Ma tu li conosci, e sai che sono soli. Non tutto questo
granché. È un po' come con i pugili: chi è del mestiere non li
vede come la gente a bordo ring o in televisione, non s'impressiona
per le loro pose, per quel gonfiare i muscoli. Sa che spesso quei
muscoli sono di carta, che quei duri hanno paura, che scappano da
altri pugili più duri di loro. Non puoi barare con chi ti conosce.
Non sanno scrivere così come non sanno fare a botte. Non sanno
soffrire, non gli piace sentirsi il sangue in bocca. Perché
scrivere, alla fine, non è informare. Non è portare la fiaccola
della Verità. Non è tenere degli schedari con cui ricattare o
sputtanare mezzo mondo. Non è pisciarsi addosso. Scrivere è
soffrire. È colorare il dolore. È tenere compagnia con la tua
solitudine. È raggelarti per scaldare chi legge. È disperarti per
infondere coraggio. È la felicità di un sollievo, che dura poco,
che muore nascendo. È parlare di te parlando degli altri, e parlare
degli altri mettendoti a nudo. È scavarti dentro fino in fondo e
dare in pasto le piaghe, unica tua ricchezza. È sottoporti
all'ordalia di chi neppure ti conosce. Consegnandoti a chi ti si
consegna. Obbligandoti a un volo senza speranza. Ed è farsi trovare.
Esserci, sempre, per chiunque. Ricevendo addosso come pugni le loro
confessioni atroci, patetiche o infantili. Una volta che questo ponte
è stato steso, non puoi più tirarti indietro e non puoi
distruggerlo. Una volta che sei salito sul ring, devi ballare. È
roba pericolosa e può farti molto, molto male. Ma devi essere
disposto a morire per questo gioco. Lascia perdere, se non sei
disposto a farne una ragione di vita, a giocarti la vita stessa. Non
c'è misura col dolore, non puoi arrivare fino a un certo punto e poi
andartene a casa. Non metterti in mezzo se non sei sicuro di arrivare
in fondo, costi quel che costi, fino a distruggerti. Perché è solo
così che le tue parole verranno fuori dal sangue. Perché tutta
questa faccenda, alla fine, non è altro che scrivere il blues.
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