Ecco cosa mi piaceva di
settembre. Le mattine frizzanti, le sere gentili. Quella luce che c'è
solo in questi giorni, uscita dalla furia del sole, protesa già
verso le brume infinite. La meraviglia quando il giorno si rompe e
non è ancora notte, tutto continua imperterrito ma l'aria pare
fermarsi d'incanto, restare sospesa, pare rifiatare, prepararsi come
se i profili delle case dentro al cielo, delle cose sulla terra
dovessero indossare il vestito da sera: è un attimo d'impercettibile
consapevolezza sconvolta, i rumori arrivano in forma di evocazioni,
tutto è dilatato per quel solo istante; poi i lampioni brillano, ed
è un altro mondo, ti ci dovrai abituare. L'impressione che il limbo
benedetto durerà per sempre, ogni volta che intraprendi una nuova
giornata e poi i ritorni, dentro la città, nella città, i viaggi
attraverso i quartieri e di ciascuno potevo assorbire la tensione,
l'atmosfera, diretto verso casa, dove c'erano le vibrazioni che
conoscevo meglio, che erano parte di me. Io, un elemento delle
strade, i miei passi calpestati milioni di volte. Sentirmi parte di
qualcosa, qualcuno, del tempo, di un presepe se vuoi. Ma c'ero
anch'io. Adesso le mie albe, i miei tramonti sanno di fretta e di
ospedale, voglia di andarci per fuggirne via. Non vedo niente. Non mi
arriva più niente. Ma anche senza, anche fuori dall'emergenza, il
mio settembre non è più. Da così tanto è anonimo, anodino, è
amputato di tutto quel che conteneva, un mese come un altro, fatto di
giorni senza storia. Già il fatto che io mi sorprenda, accusandone
la nostalgia, mi fa capire quanto distante è finita la mia vita, da
tutto, anche da me. Non c'è forse tragedia può grande nella vicenda
di un uomo, che realizzare di non avere momenti da serbare, di non
avere potuto difendere il passato nel presente. Di non aver più
niente da lasciare. I ricordi li difendi come puoi, fin che puoi ma
sono ruggine dell'anima e prima o poi li perdi. Ma è il vuoto del
vivere continuo a sconfiggerti, come tu stessi esistendo invano dopo
essere esistito invano.
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