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MARCELLINO


Ma sì, torniamo pure a Fermo, al Mercatino, è da quando abbiamo traslocato che non ci andiamo più. E scorrendo la Strada Nuova, la Piazza, il Corso Cefalonia arriviamo nel budello scosceso di via Rosati con l'odore di muffa che sale dalle segrete dei palazzi vetusti e in fondo al budello la grande casa sorta sulle rovine di un convento, dove mio padre cresceva con sette fratelli e sorelle e la madre che impazziva dietro alla tribù e mio nonno pompiere che di sera ubriaco menava gli stessi salvati di giorno. Talmente enorme, con le sue cinque stanze da dormire, due bagni, il salone, il salottino e la cucina, che ci tenevano studenti a pensione. E quelli conoscevano le sorelle Del Papa e una dopo l'altra se le sposavano, e così mio padre diventava cognato dei suoi amici.
E la casa non c'è più. C'è un rudere tetro, persiane sdentate, portone scrostato, “citofono non funzionante”. Ma cosa è successo? Vorrei entrare, vedere ancora una volta quel corridoio che a cinque anni avevo completamente scrostato a forza di pallonate sul muro, ma è sbarrato con la forza dell'oblio. Tutta una rovina, come nella canzone di Lucio Battisti. Io qui ci ho passato quindici agosti, dal numero zero fino all'adolescenza, mai avrei pensato di finirci a vivere, mi sentivo come sospeso. Arrivavo felice, ripartivo esaurito, perché a Fermo c'era niente ma per dire niente, il Mercatino l'hanno inventato dopo, la sera la luce gialla dei lampioni faceva brillare il selciato ed era tutto, massima botta di vita “andate a prendere l'acqua alla fontana”, perché a Fermo l'acqua è sempre mancata. Da piccoli mio zio Giacomo ci portava talvolta all'oratorio san Carlo a vedere il calcetto ed io ero tutto eccitato perché avevano le maglie dello stesso colore, come i calciatori veri. Gli spettatori inveivano furibondi, insultavano i giocatori per casati, per generazioni. Ricordo un paio di concerti, della PFM, del Banco del Mutuo Soccorso, si potevano vedere dalla terrazza del bar Belli ma ero troppo piccolo per apprezzarli. Anche dal terrazzo della grande casa qualcosa si vedeva, l'ideale per le sere d'estate, ci tirava sempre una brezza sul terrazzo, talmente largo che giocavamo alla palla e c'era anche una dondolo, e una bella sera zia Giuliana organizzava la pesca più squallida che si potesse immaginare, perché si vincevano le cianfrusaglie che erano già nostre.
In quella casa i ritmi erano dilatati fino alla narcosi. Al mattino ci portavano al mare, ma tardi, e tardissimo si rientrava, cotti a puntino nel forno delle macchine; ora che tutti facevamo il bagno, si facevano le due, poi, dopo pranzo, i grandi si lasciavano cadere sui materassi come animali indolenti allo zoo, in un concerto di russate, e fino alle cinque non se ne parlava; più tardi, giusto una passeggiatina fino in piazza e quindi la cena con gli avanzi del giorno: fine della storia, chi usciva più. Non ricordo una sola volta che ci abbiano portati, che so, giù a Porto San Giorgio: e a che fare, poi? Se proprio c'era da scappare, ma succedeva una volta in un'estate, era per accontentare zia Maria che aveva gli amici di campagna e quelli organizzavano come per un ricevimento e tutti mangiavano furiosamente fino alle tre di mattina. L'unica sera animata era quella di Ferragosto, ma nella piazza c'era un tale casino che alla fine si rinunciava. E a Fermo, per i vicoli di mattoni, sulle pareti dei palazzi antichi nei cui anfratti s'infilavano i gatti, regnavano pozzanghere di silenzio, ombre d'eternità.
Ma non ci mancava uscire. Eravamo tanti cugini, già quello bastava, e poi ci piaceva impregnarci dell'atmosfera della casa, i grandi che giocavano a carte, un po' litigavano, un po' raccontavano, ci piaceva sentirli riscoprire il dialetto, se poi arrivava qualche amico di famiglia la festa era completa. Arrivammo, a pieno regime, a contare fino a 20 parenti in quella casona dove mi capitò perfino di ammalarmi per settimane. Io ho vissuto alle volte come uno zingaro, in autentici accampamenti. So cosa vuol dire, è divertente, ma scomodo, e la convivenza ci mette un attimo a scadere a insofferenza. E non vedevo l'ora d'andar via, e adesso scopro che qualcosa m'è rimasto dentro di quella casa tetra, che mi faceva ammalare. Le luci silenti dei lampioni nei vicoli, le salite a prender l'acqua con le taniche, la paura non lo so di che, ma era così squallidamente evocativa Fermo di notte. Così diversa dalla città. Nonna Matilde mi diceva “Senti che aria bona che c'è qui, mica come a Milano”, ed io annusavo e non ci capivo niente. Una volta, davanti alla chiesa piccola in cima alla salita c'era un'edicola dei giornali, minuscola, e mio padre aveva parcheggiato la macchina a meno di un metro e io salii, che volevo sentire l'autoradio, e Dio sa come misi in moto e la macchina fece uno scatto e si fermò giusto a filo, altri pochi centimetri e avrei travolto tutto uccidendo chi ci stava dentro.
E adesso sbattevo contro quel cartello rosso sangue, “Vendesi”, e non ci potevo credere: io, qui... Tutto parla di me, tutto racconta di me come mai mi ero accorto, se guardo bene posso vedere ancora sui muri del vicolo sagome di scritte sepolte sotto strati di tempo, e la puzza di muffa è la stessa e i gatti che mi guardano e scappano sono gli stessi; se cerco bene, lo vedo il fantasma del bambino spaventato.
E nel fiume di gente indifferente mi scoppiava in cuore una bestemmia e pensavo, non c'è niente, niente, dopo non c'è niente, noi passiamo la vita aspettando il momento giusto e così lasciamo scorrere il rubinetto dei momenti, ma la vita non esiste, non è una cosa che ha una coscienza, che tiene conto dei tuoi sacrifici, delle tue virtù, è una roba che non c'è mentre passa e passando ti fotte. Non ti riscatta. E ogni volto d'Iddio è una colossale, eterna consolazione. Non può esistere una vita dopo una vita che non c'è.
E allora ho alzato gli occhi fino all'ultimo piano e mia moglie ha capito e non ho dovuto raccontarle un'altra volta la storia di Marcellino, il bambino affacciato lassù in alto che mi salutava con la mano. “Quello chi è?”. “E' Marcellino, ha la tua età”. “E perché non viene in terrazzo a giocare?”. “Adesso è ammalato, ma dopo guarisce”. E di lì a qualche giorno lo vedevo pedalare furibondo sulla sua biciclina, un'energia di stella che esplode, ma poi lo ritrovavo ancora su in alto a salutarmi. “Ma perché è tutto pelato?”. “Perché qui siamo a Fermo e a Fermo si usa così”. “Allora voglio pelarmi anch'io”. “No, tu no che poi torni a Milano e i compagni ti canzonano”.
E l'agosto seguente appena arrivato guardai su e chiesi, “Come sta Marcellino? È guarito?”. “Marcellino non c'è più, è andato in cielo”, e la finestra lassù era chiusa.

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