Vorrei essere uno dei miei gatti,
per non dovermi sempre chiedere chi sono. Negli ultimi 25 anni non ho
fatto che scrivere, scrivere e in questo specchio mi ci sono perso, e
forse non ho nemmeno voglia di ritrovarmi più. Sempre quel sentirsi
inadeguato, quel doversi spiegazioni, quel processarsi ogni giorno,
ogni momento, e, là fuori, nessuno che capisca. Perché dovrebbe
poi? Ciascuno ha i suoi conti con se stesso, quelli degli altri sono
perfettamente inutili, pura vanità. Ma quello che sto cercando di
dire, è che vivere così non ha più senso, sentirsi sempre in
debito verso se stessi è una condanna immeritata. Non debbo niente a
nessuno, ho sempre cercato di dare più di quanto ricevessi, eppure
non è bastato. Tutto si rimette in dubbio, tutto di sospetto si
nutre. Non ci sono punti fermi, sicurezze, motivi d'orgoglio: ma come
fanno, i soddisfatti di sé, gli orgogliosi? A me tocca di ripartire
da capo ad ogni articolo, e niente di quello che lascio ha un valore
oltre il mio impegno, la mia speranza. Sarà che noi, generazione di
una crisi, non possiamo arrivare a cinquant'anni raccogliendo il
frutto di giovinezze bruciate di lavoro, sarà che non è facile
difendere la dignità di una fatica che ogni sera evapora e ogni
mattina la devi rimpastare. E dover fare sempre tutto da solo, sempre
tutto da solo. Dover trovare solo in te le motivazioni, le
consolazioni, la compagnia, la forza di non cedere quando si chiude
una porta, si apre un burrone. Sarà che siamo obbligati a una eterna
e sempre più ansimante adolescenza, ma io così non mi basto. Non so
chi sono, non l'ho mai saputo, non riesco a far pace con un'età che
per certi versi è precoce e per altri tardiva, che ha visto troppo e
niente e ha dovuto saltare i passaggi che la società aveva fino a
ieri predisposto, quelli nei quali eravamo stati allevati. Sono
immaturo, sono troppo maturo. A forza di reinventarmi, mi sono
perduto. Vorrei fuggire a bordo di una notte estranea ed elegante,
notte estiva e lucida di pioggia, vorrei avere ancora dodici anni e
riavere indietro la mia città, ma per farci che? Bisognerebbe
trascinarsi come Chet Baker, quando la vita è così, senza curarsi
di niente, disperdendosi a oltranza. Ma è un terribile dono che
pochi hanno, e invece l'esistenza banale corrode, aggredisce e
consuma senza scampo. C'è una bella canzone di Vasco Rossi che dice
“Soddisfatto di che? Ma va bene anche se alla fine il passato è
passato”. Ma qualche volta il passato non passa, è l'unico
presente ed è fatto di pena e di assenza, di dolore e mancanza. Di
notti insonni e rimorsi per non sai più neanche cosa. E non sai come
interpretarti, e vorresti incontrare una maga per chiederle non cosa
sarà, ma cosa ti è successo finora. Scrivere, scrivere e non essere
mai utile davvero, e non essere importante per nessuno. Non essere
mai felice, neppure mai contento, non rilassarsi mai, non trovare
ragione in chi sei, e lo stesso non poter fuggire alle responsabilità
di una vita che non c'è. C'è già l'inferno, non mi serve un'altra
vita per trovarne un altro, io lo conosco da sempre e questo mio
troppo pensare, troppo scrivere, troppo giudicarmi è la conferma che
Dio non è per tutti, che l'indulgenza è di chi è abbastanza
peccatore per meritarsela.
eppure le tue parole sono importanti per me.
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