Oggi non avrai 80 anni
perchè ti sei fermato una decade fa e a ripensarti adesso è già un
mezzo miracolo anche se ci sei arrivato perdendo i tuoi pezzi. Eri di
quelli che mettevano in conto l'autodistruzione, e mi hai passato più
di qualcosa nel sangue. Così ti ricordo, per ricordarmi di me: un
lungo momento di un attimo, fotografie che straripano: scorrerle
ancora non le consuma, le fa solo più vivere, alimentate di
rimpianto. I giri col furgone, tu che ti assoggetti alle mie cassette
(ancora ascolto quella roba). L'infinito di noia aspettando i tuoi
impegni di grande lavoratore, grande perditempo, grande logorroico:
se una cosa richiedeva mezz'ora, tu la facevi durare un pomeriggio,
era così che ti piaceva consumarti, c'era più spazio per fumarti
anche l'anima. Estati intramontabili, mai più trovate, dove tutto
era spensieratezza, anche se non per me. I sabati nella piscina dei
ricchi, per non so più quale vitalizio, ma noi poveri diavoli
eravamo in imbarazzo. Quel modo che ancora mi manca di vivere la
città come solo un genitore anni Settanta poteva tramandare. Anni di
limbo beato nella casa col cortile, dove crescevo con gli altri
bambini (ancora mi leggono, sai) e voi genitori eravate sicuri. Non
hai fatto in tempo a vedermi con la barba imbiancata, né su un
palco, davanti a un pubblico, alle prese con mille necessità
mascherate da avventure. Non hai fatto in tempo a vedere l'eterno
adolescente tramutarsi in uomo e assumere le tue smorfie, le tue
bestemmie, l'altruismo malato che ci frega sempre, a capire certe
disinvolture che allora mi turbavano, altre tenerezze che parevano
melense. Non hai fatto in tempo a sentirmi chiederti scusa dopo avere
sperimentato la vita. Non hai fatto in tempo a conoscermi come il
personaggio pubblico che eri certo sarei diventato, alle prese con
gente che mi segue, mi vuol bene, mi detesta, mi affida i suoi
segreti che poi sono gli stessi miei, i tuoi, non cambiano mai. Non
hai fatto in tempo a sentire la lettera che ti ho scritto mentre
morivi, e che da allora non smettono mai di chiedermi ogni volta che
mi azzardo a tornare. Adesso che non sei, conosco luoghi e uomini,
ovunque vada posso fermarmi e riposare. Sotto ogni cielo posso
sentire che sorridi: te l'avevo detto. Io di notte sto sveglio, penso
che non li contengo tutti i momenti, perché vivere con te è stato
vivere me stesso, nelle cose che restano, in quelle che vorrei avere
superato. Avresti ottant'anni, sempre la stessa faccia e non posso
credere che da quasi dieci non sei: dieci calendari in qualche modo
persi, perché l'ultimo battito del tuo polso ha risuonato nella mia
mano; perché il silenzio dopo tutto quel rantolo mi è esploso
dentro e non smette di far danni. Ovunque vada, me lo porto appresso:
mi ha cambiato, la mia vita da adulto cominciava nella tua morte. E
per quanto io mi sforzi di essere all'altezza quando sto nella gente,
qualcosa di me è sparito per sempre, solo tu lo sai dove. Ma io non
voglio più essere all'altezza. Io la notte non dormo, a volte ti
chiamo, mi ti raccomando perché non ce la faccio. Come allora, non
riesco. Non divento più forte, ho sempre più paura di seguirti.
Sono sempre più sperso e non ho imparato il tuo coraggio
incosciente, che poi incosciente non era, era solo un modo per
mandare affanculo la vita, che è puttana. Tutto quel che ho capito
si è rivoltato contro. Tutto ciò che ho inventato è mulinelli di
polvere, come la tua nell'urna a casa di mamma. Tutto quello che so è
che si diventa come il padre soffocante e quando te ne accorgi non
resta da fare altro che chiamarlo, nel letto del silenzio, la notte
mentre non dormi.
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