Oggi dovevo presentare un
raduno d'auto d'epoca in un bel ristorante dell'entroterra. C'erano
duecento persone, è stata una bella festa, io ero con mia moglie e
tanta gente la conoscevo e mi conosceva perché conduco spesso
manifestazioni legate al motorismo storico. Eppure stavo da un'altra
parte. Quando c'è gente che si diverte e ride, ebbra e un po'
stordita, io provo un disagio sottile e mi ritrovo al margine. Mi
sento diverso. Mi sento malato. Prima che tutto cominciasse mi ero
messo a strimpellare il pianoforte, ho continuato a lungo, dopo ho
capito che il mio disagio era già cominciato lì, in quei momenti.
E' come se potessi vedere la felicità degli altri, fatta di un'aria
che evapora presto, di un ossigeno che non mi appartiene. Io la
felicità non l'ho bevuta mai. Dopo si torna a casa e ho ancora quel
senso di malessere nell'anima, mi sento la persona più sola al
mondo, la più sbagliata; penso che se mia moglie sparisse in un
istante io andrei a fondo, non avrei nessuno scoglio dove
aggrapparmi, non avrei una sola porta cui bussare. Forse è anche che
mi manca sentirmi avvolto dal un traffico familiare, da un caos che
conosco e che mi fa sentir vivo ogni volta che lo ritrovo: io non
sono per i viali di foglie, per il mare complice, l'eco dei passi,
l'aria che sa d'aria, tutte cose che mi piacciono terribilmente, alle
quali non saprei più rinunciare, ma che mi fanno male. Non sono per
me, non sono me. Da una vita ormai non mi conosco; mi adeguo a ciò
che non sono, dove non sono, ma non sai che fatica. Non lo sai che
fatica vivere con me stesso, col freno tirato, contromano. Ma non è
solo questo. Ho paura di vivere e ho paura di morire. Fin da bambino
la felicità degli altri, a guardarla l'ho sempre trovata effimera,
disperata e impossibile. Gli altri sanno difenderla e sanno
spenderla. Sanno che dura poco, e se la godono. Sono saggi. Io non so
come afferrarla, mi passa davanti e sono inetto. Più la osservo, e
più sento che non mi appartiene. Non posso rubarla. Non sarà mai la mia.
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