Aspettami
un attimo dice mia moglie, prendo due cose e torno. E io, rimasto
fuori come il povero cane del cartello antico, "noi non possiamo
entrare", mi disperdo ad osservare il cartellone di un
detersivo. Rifletto. Sono cresciuto col mito maledetto del
consumismo, croce e delizia, sollievo e senso di colpa, ma più la
seconda che ho detto: il consumismo, questo lavacro collettivo,
questo peccato dei tempi moderni, questa colpa di cui vergognarsi,
questa debolezza inconfessabile, anzi, inammissibile. Davvero? Il
consumismo che ricordo io, era fatto di passeggiate per mano a mia
madre fino al supermercato "Unes" di via Vallazze, una cosa
piccola, affettuosa, mica i megacentri di oggi. Entravamo e mia madre
faceva incetta di detersivi, di saponi, era, ed è rimasta tutta la
vita, una maniaca della pulizia e la casa sapeva di detersivi, di
bucato, di luce, lei sempre pulita nei suoi vestitini freschi come
fiori, io e mio fratello sempre puliti a dispetto della vivacità di
un'età. Anche il supermercato sapeva di profumi, chimici,
consumistici, ma profumi, ma gradevoli. Il piccolo rituale della
spesa, le borse che mi illudevo di aiutarla a portare, il rosario
delle cose appena acquistate, non ci faceva mancare niente, neanche
il cacao in polvere "Scatto Perugina" che mi piaceva tanto
da infilarlo in un tema di quarta o quinta elementare: forse la mia
amata maestra Benedetta Murachelli lo conserva ancora, da qualche
parte. Adesso dal supermercatino di una vita dopo, io risento ancora
quel sapore, e posso vedere il balcone di mia madre, che in fondo non
è mai cambiata e mi ha aiutato a non cambiare mai. Era più sprecone
mio padre, venuto su dalla provincia col mito del benessere da
conquistare sventolandolo come una bandiera, anche se era di cartone.
Aveva un po' le mani bucate mio padre, pacchi di giocattoli a Natale,
che noi ne uscivamo imbarazzati e quasi infastiditi. Appena poteva
cambiava l'arredamento, poi non gli restava niente in tasca, ma era
felice a vedere mia madre felice e i figli, almeno così credeva,
soddisfatti. Negli anni d'oro, abbiamo cambiato più camerette noi
dell'Ikea, alcune del tutto demenziali, ne ricordo una spaziale, coi
letti che al mattino si tiravano su e rientravano nell'armadio,
giravi l'armadio e potevi tirare giù la scrivania. Pareva il
monolocale di Renato Pozzetto, taaac! E gli piacevano i macchinoni a
mio padre, anche perché in macchina ci viveva, cento, duecentomila
chilometri l'anno in una Milano frenetica e generosa, lui le auto le
cuoceva, le usava come casa, ufficio, palestra, le sue cento
sigarette al giorno le fumava principalmente lì, e poi buttava le
cicche ancora accese per terra, tra i pedali. Un pazzo. Una volta si
fece una Lancia Gamma lunga come un aeroplano: non è mai andata,
mandava botti e sbuffi come la Oldsmobile del conte Mascetti, la
sentivamo crepitare da lontano, "arriva papà con la Gamma",
ci ha lasciati a piedi tutte le volte che poteva, ha passato più
tempo dal meccanico che su strada e nessuno riusciva a capire che
diavoli avesse in corpo. Alla fine, mio padre esasperato si decide a
venderla e quella prende fuoco all'ultimo viaggio, verso la
concessionaria dove la macchina nuova aspetta. Mio padre, più
frustrato che spaventato, bestemmiò quella volta più d'un
livornese. E poi, massimo spreco piccoloborghese, il mese intero a
Miramare d'estate, ospiti della pensione "Marocco"
dall'amico dei miei nonni Vincenzo, mantovano verace che
nell'agendina scriveva "gazzolio", "reoporto". La
felicità di quelle estati familiari, con i miei cugini, con mio
nonno Sergio che in spiaggia scartava come un cavallo, con mio zio
Franco dal curioso slang ascolan-mantovano che usava mio fratello come diplomatico, "Cicciolo!
Vamme un po' da la Franca (la pensionante) a cambiamme un paio di
cientemila lire", "Non c'è zio, sta dormendo",
"Veniss un càncaro ssa donna, sta' a trombà tutta notte po' il
pomeriggio dorme!", ed io subito correvo a raccontarlo all'altro
zio Vittorino (ci rotolavamo dal ridere), la beatitudine di quelle
estati ce l'ho talmente tatuata nell'anima che ad ogni luglio io
debbo lottare contro la tentazione di tornare a Miramare, a farmi
male constatando che niente è rimasto, a cominciare da me. I Bee
Gees cantavano "Stayn' Alive", Renato Zero sbarcava alla
Locanda del Lupo, Casadei infieriva col lissio, io mi immaginavo mio
padre, che tornava giù al venerdì e ripartiva la domenica, tutto
solo nella nostra casa di via Carpi. E chissà poi se ci stava, in
casa, e se era sempre davvero tutto solo. Oltretutto, la solitudine
gli faceva paura, e non era capace di prepararsi neanche un caffé.
Ed era un gran perditempo, un lavoratore dispersivo, non per
moralismo ma non ce lo vedo a trasformare la casa pulita di mia madre
in un'alcova, era troppo incasinato, troppo disorganizzato, anche
molto moralista: se peccava, io dico che andava altrove. Ma questo,
oramai, non ha più importanza. Eccolo qua, il mio consumismo: lo maledivano tutti, da Pasolini a Baudrillard, sarà
anche stata una colpa, ma se ci ripenso io non ci vedo niente di cui
vergognarmi.
Lacrime per ogni ricordo che abbiamo e sospiro per ogni cosa che verrà. Ben scritto Massimo ed è solo il superfluo a dover preoccupare.
RispondiEliminaTroppo bello ! Mi fa pensare a mio zio, ispettore dell'Algida che girava tutta l'Italia per assicurarsi che avessero i frigoriferi in ordine - ma usava un macchinone diesel, lo amavo piu' di mio padre.
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