Quest'estate,
rassegnatevi, vi toccano i ricordi. I miei. Potete leggerli o passare
oltre, ma io a straparlare tutto il tempo di Brexit non ce la faccio
e così spero di voi. Oggi, pertanto, vi racconto della volta che mi
tagliarono la gola. Avevo tre anni. Più esattamente, me la
ricucirono, ma dopo avermela ricamata, e fu una faccenda lunga.
Successe che ero nato difettoso, palato-schisi, dal greco "skizo",
ma che maniera aulica per dire che non potevo parlare: difatti me la
cavavo mugolando e gemendo, mia madre mi assicura che lo spettacolo
era patetico. Di quel lungo limbo preverbale mi sono rimasti due
superpoteri: poter penetrare le parole come quardi, odori,
suggestioni, sfumature infinite, e saper risolvere a istinto le
parole crociate crittografate, quelle coi numeri al posto delle
definizioni. Ero un paradosso in calzoncini corti: riuscivo a leggere
il Corriere della Sera a 36 mesi, ma non ero in grado di sillabarlo,
la prima parola di ogni bimbo bello, "mamma", io la modulai
in "a--aa". Praticamente la sirena di una fabbrica. Per
farla breve, a tre anni, quando i tessuti molli lo permettono, mi
portano all'ospedale Fatebenefratelli e qui mi lasciano, nelle
grinfie delle suore caritatevoli e di un luminare che si chiamava
professor Mussinelli, braccio destro di uno più luminare ancora che
si chiamava prof. Sanvenero Rosselli. Lì io ebbi la conferma,
definitiva e irrevocabile, che il destino è anagrafico: uno che si
presenta "Piacere, Sanvenero Rosselli", può solo finire a
riparare i viventi, uno che dice, piacere, Massimo Del Papa al
massimo fa il free lance. Mi ricoverano, mi salutano i miei e io
piango disperato per quell'abbandono che si rinnova ogni pomeriggio
(chissà se qualche trauma si sedimentò in me). Mi mettono un bel
pigiamino, mi fanno le analisi e mi dicono di star buono. Due
settimane di luce vetrata, di odore d'etere, di pigiamini cambiati,
di giocattoli regalati agli altri bambini (non ho mai saputo dire di
no, maledizione), di profili, ma questo l'ho cancellato, di piccoli
assai meno fortunati di me: tutto ha nascosto la mia mente, ma che
fossero strazianti non lo scordo, lì non si trattava di riparare ma
appena di addolcire, per quanto possibile, una natura crudele. Un
giorno mia madre mi trova addormentato con le braccine ingessate e le
pantofole scambiate ai piedi: quella volta piange lei, tragedia tanto
- le donne mantovane son così - che mi sveglio e c'è una suorona,
suor Matilde, che dietro gli occhiali spessi affettuosamente si
dispera: sì, sarà anche un bambino buono, ma non sta mai fermo, e
vuol sempre parlare. Mi hanno operato, mi hanno bloccato le braccia
così non me le caccio in gola, ma le parole, quelle vogliono volar
via dalla mia gola come farfalle. E invece debbo star zitto, che
tutto si deve cicatrizzare. Finalmente una bella mattina mi portano
in ambulatorio, strafatto come in quel 1967 Keith Richards manco si
sognava: "Ma lo sai" mi dice un camice senza faccia "che
hai la bocca piena di formichine? Adesso le togliamo, conta un po'
quante sono, una, due, tre...". Sono i punti, vengon via da
soli, sono guarito e mi riportano a casa. A casa mi aspetta la Vespa
a pedali a lungo sognata, ci salgo sopra e con la mia voce nuova
scandisco: "Che meraviglia, papà!". Mio padre scappa via come un pazzo, ma cosa gli ho fatto? Ma lui sta piangendo sul
pianerottolo, riesco a sentire i singhiozzi. Da quel momento non la
smetto più di parlare, salto perfino la scuola logopedica che mi
avevano prescritto e mia madre si pente quasi subito d'avermi fatto
operare. Siccome il padre di cui sopra è un fedele emulo di Alberto
Sordi, non dimentica - quasi un ex voto - di andare a ringraziare le
suore caritatevoli del Fatebenefratelli. Solo che, lavorando
nell'elettronica, invece di una scatola di cioccolatini reca in dono
un mangiadischi; dentro, per coerenza, ci ha messo il disco di una
notra hit religiosa: lato A Gounod, lato B Schubert e le suore, tutte
contente, si sparano l'Ave Maria a 45 giri: "Dio la benedica,
signor Del Papa".
La morale è che, oggi,
io mi guadagno la vita con le parole: scritte, e, quando capita,
perfino parlate. Ve lo dicevo, che il destino sta tutto nel nome.
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