Sono notti difficili, non
me l'alba ma io sorprendo lei, sul balcone la aspetto arrivare e lei
si annuncia, un chiarore impercettibile, i primi canti d'invisibili
uccelli; mi accorgo d'aver dentro altre aurore, e una di queste
voglio raccontarmela qua.
Vigile nel letto
d'isterica attesa non mi muovo: suonerà mai la sveglia, o s'è
spaccata? Quando Dio vuole trilla, mio padre si scuote, si rianima
casa. Per l'ultima volta. Luci accese prima della luce, le stanze,
gli stessi mobili hanno un sapore diverso; sembrano salutarci mentre
accatastiamo le ultime robe: non fuggiamo dalla città, ce la
portiamo appresso, come nella vignetta della Settimana
Enigmistica. Ieri sera, con gli amici del cortile, ci siamo
salutati per l'ultima volta: ci vedremo tra due mesi, una vita, e non
so come farò. Ma il richiamo del mare è forte però. Solo un caffè
per tutti, anche mio fratello che è piccolo e si diverte un mondo:
si scende, mio padre oppresso dai valigioni. La 125 special rossa
dalla marmitta “come un cazzo storto” sa già cosa l'attende: sul
marciapiede il vecchio smadonna al primo chiarore, maledetta donna,
tutta 'sta roba non ci sta. Svuota e riempie il baule come un gioco
d'abilità. Niente. Altre dannazioni contro il matrimonio, io mi
scoccio e, lo scheletrino rosso di gomma flessibile in mano, parto in
esplorazione della città. Che angoli, che spigoli, che fumetti
viventi, che inchiostri di china, ma dove sta tutta questa città di
giorno? E non partirei più ma passa una spider rossa, braccialettato
il polso di un uomo che fuma, lascia Ancora tu in scia, punta
verso il ponte di via Porpora che l'inghiotte, è di certo un sicario
e torna alla sua notte di vampiri. Ma la notte scolora e sento il
ringhio di mio padre: pallido mi minaccia ma non ho colpa, lo giuro,
se la città m'ha rapito, non lo sai padre mio che sto cominciando a
scrivere proprio adesso, assorbendo sensazioni per liberarle in
parole?
Ma il padre se ne frega
delle sensazioni, ha giusto una certezza: “Questa cazzo di macchina
a Rimini non ci arriva”. Scende mia madre con la faccia dolente di
chi va al mare e mio fratello a mano, ha sempre la faccia da santino
mia madre, specie quando esce da una boutique o parte per un mese di
vacanza. Si va. Ci fermiamo. C'è da aspettare “Bianchini”, che
sarebbe lo zio Frank, ecco la 124 blu proveniente da Carugate,
accosta, ci affianca: tutto bene? Lui si agita in ascolano
naturalizzato hinterland: “Dio Crischto, la Elena ha dovuto andà a
lu cesse, ma come si fa, oschtia, a costringe 'na frechì di otto
anni a cacà a comando alle quattro di mattina?”. Mia zia Elva lo
compatisce dentro l'abitacolo. Si ride. Si rivà. Cinque chilometri e
mio padre ha un ghigno, “Marisa Bianchini ha fame” e la 124 di
dietro lampeggia che pare Christine la macchina infernale. Abbiamo
capito, ci fermiamo, Bianchini deve far colazione e non siamo manco
usciti dalla barriera di Melegnano. Odore di caos all'autogrill, ma
quanto mi piace il cappuccino con la brioche, a casa non c'è mai.
Siamo viziati, eh.
Intanto l'autostrada si
pittura di pallido azzurro sempre più forte coi chilometri. Che
bello il sole che s'arrampica in cielo. Metti l'autoradio papà. Pare
non finire mai il viaggio ma appena lo penso vedo il cartello
"Miramare". Mira il mare quant'è bello, spira tanto
godimento e subito mi fiondo all'edicola coi giornalini vecchi mentre
la 125 s'incanaglisce nella solita manovra di ogni anno per entrare
nel parcheggio dell'albergo “al Marocco”, che tutti ci prendono
in giro e invece è così confortevole e si mangia da Dio, lo
gestisce Vincenzo che è di Quistello anche lui, come i miei nonni,
si conoscono da una vita e non pare di stare in pensione anche perché
la cuoca, che poi è sua moglie e obbligatoriamente si chiama “la
Maria”, con l'articolo o niente, cucina appositamente per mio padre
la pastalforno che gli piace da matti. Vincenzo l'è un umasas,
un omone tutto cuore, parla come mangia come scrive e quando
arriviamo ci fa tante feste e noi ci sentiamo a casa: mi vien da
ridere, oggi, se leggo le moderne strategie di marketing. Prendiamo
posto in stanza, coi mobili che definire vecchi e fatiscenti è
giusto illudersi: ma è piena d'estate, e, per un mesetto, sarà
piena di noi. Siamo tre più uno, il vecchio andrà via domani, va e
viene ogni sabato del mese che ci lascia qui. Per cui in stanza ci
entriamo. Più avanti, crescendo noi figli, le camere diverranno due.
Mia madre che ha la mania della pulizia la trasforma subito in
un'appendice di casa, la lustra con faccia dolente, da santino,
potrebbe vivere di vacanza per un mese ma non si rassegna, le
faccende le deve fare anche qui: e poi ce le fa pesare a noi figli.
Ma il mare di Miramare è
bello anche se non è un granché. Un carnaio anni '70 ma subito ci
si fa amicizia e ci sono ovviamente ragazzini più muscolosi, più
sicuri e più sfacciati di me, che non sopporto, che patisco.
Preferisco stare nella tribù, gli zii “Bianchini” e Vittorino
con cui scherzo come un adulto o forse sono loro che con me tornano
bambini. È una vacanza placida, familiare ma ne succedono di tutti i
colori e c'è sempre da ridere. I miei nonni hanno sessant'anni, sono
giovani e nemmeno li dimostrano, mio nonno ha energiche voglie da
trentenne, non sa nuotare ma pretende il gommone coi nipoti sopra,
“ciao Ebe, vado in Jugoslavia a trovar Tito” e ci porta al largo,
più largo, larghissimo che non ci si vede più e siccome le donne di
quella razza mantovana sono delle gran rompicoglioni, non par loro
vero di cominciare a tragediare, “Udio ì s'è angà”, ma non si
annega nessuno anche se mio nonno un po' incosciente lo è.
Insofferente pure: mi porta a passeggiar sul bagnasciuga e scruta le
ragazze con occhio d'allevatore di bovini, “Vedi che belle, non
ancora sformate dal parto”. Se giochiamo a bocce pretende maturità
da anziano, io invece sono un diavolo che non sta fermo, ci chiniamo
a vedere di chi è il punto e io gli mollo una testata che gli fa
volar via gli occhiali: il commento è rassegnato: “Diu can, tùti
'sti putlet!”. Che sarebbero i bambini. Corro subito a raccontarlo
a Vittorino, suo figlio, mio zio, e diventa il tormentone dell'estate
(sono passati più di 40 anni, ma ancora ce lo raccontiamo, questo
evergreen dinastico).
Si sta bene a Miramare
perché ci sono alberghi e pensioni dappertutto e ciascuno è un
microcosmo, coi suoi clienti storici, le sue dondolo, le sue Marie
che cucinano, i suoi tavolini dove dopo cena si gioca a briscola. La
nostra di pensione è familiare al cubo e Vincenzo, appena arriviamo,
ci destina al tavolo con una umiliante tela cerata “Perché i figli
della Marisa se no j'am ruina na tfaia a disnà”, mi fan secca una
tovaglia a pasto. Io rovescio tutto, in effetti: mio nonno mi vede e
si dispera, o, per dirla a modo suo, "a tira na qual biastèma".
Vincenzo scrive come parla, in mantovano, una volta mio padre ha
bisogno di cercare l'aeroporto perché vuol far lo splendido,
prendere l'aereo a Rimini e sbarcare a Linate, così lascia qui la
125 incastrata nel parcheggio. Cerca nell'agendina di Vincenzo, e
l'aeroporto non c'è; in compenso, si scoprono perle: “Gazzolio”,
cioè il bombolaro del carburante. Cerca, cerca, e l'aeroporto in
agendina non c'è. Alitalia, ma figurati. Alla fine, una casualità:
scorre la lettera “R” ed eccolo lo scalo alla voce: “Reoporto”.
Mio padre impreca felice.
È
un limbo di un mese dove non altra preoccupazione v'è che ridere,
prendere bagni, augurare degli affettuosi "cancher" al
vicino di stanza che russa, esplorare il villaggio straripante
d'alberghi, di pensioni, di sale giochi lievemente malfamate, di
equivoche piadinerie addobbate come covi dei pirati, c'è pure il
luna park, tutto è atmosfera che si incide violenta nei miei sensi
di ragazzino, tutto mi piace da morire, perfino il cinema che
proietta le ultime novità ed emana uno squallore tale che se non ci
passo davanti almeno due volte al giorno e me ne lascio tramortire,
io sto male. Ci sono, certo, anche le cottarelle per le fanciulle
dell'ombrellone a fianco, ma ancora gestibili tutto sommato; sono più
coinvolto dall'atmosfera balneare e già non penso più alla città,
al quartiere adorato. Accumulo Madeleines. A la plage, in giro, in
chiesa la domenica, al piccolo parco sempre deserto dal sole feroce,
lungo il viale che coincide con la statale ed è tutta un'ernia
infinita, località dopo località, di bottegucce uguali che rotolano
fuori le loro mercanzie colorando il passeggio, mia zia Rita vuole a
tutti i costi un paio di jeans bianchi, alla moda, io passo davanti
al negozio di dischi, mi attrae la copertina di un enigma in costume
da gallo, da Pierrot, è anche venuto a cantare alla Locanda del
Lupo, bloccando il traffico, volevo andare a vedere ma mia madre l'ha
proibito, non son cose da bambini, dicono che quello è un pazzo, un
travestito, la sera dopo cena ci si trascina in qualche rassicurante
gelateria e m'inchiodo al juke-box dove una ragazza dalla voce
acutissima canta di Cime Tempestose, poi lentamente, una fermata al
metro, un'ora per duecento metri, si torna in albergo, previa sosta
fatale all'edicola che a mezzanotte è sempre aperta, e m'addormento
seguendo scie di lissio e di mazurka, il saxofono ricama le notti
sino all'alba. Passa un mese scandito dai ritorni e le partenze di
mio padre e in un attimo è agosto. Si scende a Fermo, altro mare,
altra storia. Ma per me l'estate aveva cominciato a consumarsi appena
arrivati, due giorni e casca il mio compleanno: io guardo la sera, mi
accorgo che impercettibilmente arriva già prima e sento che ho
perduto un altro anno. Non lo dico a nessuno, nessuno capirebbe, ma
la sento invincibile questa malinconia del cielo, che non va via, mi
tatua l'anima, resta parte di me. Dentro me. Il mio blues che ancora
non so suonare. Io sono il blues, verrà giorno che lo ascolterete.
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