Interessante, come
cambiano le battaglie civili. Femen che, pur di sostenere la "compagna Meloni", sono disposte ad ingoiarsi un Salvini tutto intero. Fanciulle che transitano come niente da Rosa Parks a Valentina Nappi. Le mie compagne femministe teorizzavano
il diritto-dovere dell'aborto, anche per allegria, anche con la pompa
di bicicletta come usava fare la Bonino; le femministe due o tre
punto zero invece propugnano il dovere-diritto di procreare, almeno
per poter governare, il che suona terribilmente discriminatorio nei
confronti della povera Bedori, degradata a casalinga sfiorita, a mamma d'antan (che lasciò il lavoro per occuparsi della prole). Altro che la cialtronata di buttare
nello stesso calderone “sessista” due casi che sono l'uno la
negazione dell'altro. Ma pigliamo pure per buono il discorso del
“posso fare tutto se voglio fare tutto” (se poi faccio male, sarà
colpa del mondo, del sessismo, del maschilismo, della natura, del
Padreterno). Bene, io domando solo una cosa: c'è un limite? Diciamo
pure che una gravidanza non è un ostacolo a comandare una Capitale
(disastrata). Due, lo sarebbero? Fino a quante, tre, quattro...?
Quando è che, eventualmente, ci si deve fermare? Non è una domanda
provocatoria o speciosa, è che io, per esempio, ricordo il caso di
una magistrata che rimase incinta: evviva, felicitazioni, auguri e
figlie femmine (maschi sarebbe suonato inaccettabilmente sessista).
Poi però quella giudice non fece in tempo a tornare che era di nuovo
in stato interessante; per farla breve, scodellò quattro marmocchi
in 5 anni e in Tribunale nessuno la vide mai. Le conseguenze sul suo
carico di lavoro, credo le stiano scontando ancora oggi dopo una
ventina d'anni. Naturalmente non fu la sola, altrimenti sarebbe stato
discriminatorio per le colleghe: cito quella perché fu il caso più
prolungato, ma a un certo punto il povero procuratore capo aveva
quasi deciso di affiggere in procura il cartello “Affittasi”: era
rimasto da solo, tutte le colleghe erano a casa in maternità. I più
contenti erano i delinquenti, che si videro morire in prescrizione
valanghe di processi.
Ortega y Gasset parlava
di “bambini viziati della democrazia” per dire i pretendenti ai
diritti assoluti, fatti di facoltà senza obblighi, tanto meno quello
del confronto con la realtà: esiste un senso di
responsabilità che tenga conto della ragione, oppure porsi il
problema delle conseguenze della propria onnipotenza in un sistema
integrato suona intollerabilmente maschilista? Detto in altri
termini: il discorso “io debbo poter fare tutto altrimenti è
sessismo” contempla solo i diritti e discarica le conseguenze sulla
famigerata società?
Lo chiedo anzitutto alla
Meloni, che con soave disinvoltura ha ribaltato la sua posizione (“Sono incinta, non posso
fare campagna elettorale e tantomeno il sindaco”; "Sono incinta, sarò un ottimo sindaco di Roma"), e poi anche alle
sue tifose, che hanno ribaltato, forse in modo non del tutto
disinteressato, il loro sentimento per lei. In attesa di capire se un figlio sia una carta elettorale, uno sponsor, un passepartout, un dettaglio o cos'altro, un'altra cosa chiedo, in
sintesi dei discorsi battaglieri di questi tempi: ma se la Meloni
(passata da cozza da fotoshop a Giovanna d'Arco della sinistra “pro
life” modello Adinolfi), oltre che procreare, vendesse poi suo
figlio, naturalmente a una coppia accettabile per orientamento sessuale, politico e censitario, la mandiamo direttamente a fare la
presidentessa della Repubblica per meriti socialsessuali?
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