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CHEAP WINE - MARY AND THE FAIRY


Succede nella vita di cambiare vita all'improvviso partendo da dove vivi e che il primo disco che metti nel lettore appena ricominci a vivere nella tua nuova vita sia Mary And The Fairy dei Cheap Wine. Ti metti lì un pomeriggio e ascolti e mentre ascolti scrivi e pensi che ti piace questo momento qui, con questa musica qui, sorprendentemente soffusa, vibrante come un gatto all'erta eppure sorniona, elegante, notturna. I Cheap Wine avevano incantato in trio per così dire acustico ma non troppo a San Ginesio, nel marzo di quest'anno, in combinata coi Gang; il disco che dopo la consueta battaglia coi mulini a vento hanno sfornato, va da sé autoprodotto, è di un mese dopo, poco più; qui in formazione tipo, in casa propria, Pesaro, Teatro Sperimentale, 30 aprile 2015, erano come treni nel colmo di un tour che non è mai finito perché loro son di quelli che suonano sempre e più suonano e più diventano bravi e se non suonano comunque provano e provano e provano, per non arrugginirsi mai. Si sente. Delle otto lunghe tracce estratte da quel concerto e immortalate qui, nessuna era già stata catturata dal vivo: per scelta, per arricchire la prospettiva di Stay Alive!, di ormai 5 anni fa, e poi perché nel frattempo erano arrivati altri due album da studio, ovviamente straordinari. Il repertorio è a questo punto sconfinato, le soluzioni sonore potenzialmente infinite, i cinque possono davvero fare quello che vogliono con gli strumenti addosso. Lo fanno. Qui, non senza sorprendere, privilegiano i toni dolenti, meditativi, di eroi stanchi della polvere di un viaggio che non finisce ma non si sa neanche dove continui; una scelta di coerenza, di onestà per non nascondere l'attuale momento, la difficoltà dell'esistere resistendo, il canto di Marco Diamantini trattenuto, vorrebbe esprimere ancora più di quanto già non faccia, la voce di chi non ha più niente da vincere e da perdere, e sotto il contrappunto caleidoscopico dell'accordion o le tastiere o il piano di Alessio Raffaelli, e poi, sulla linea ritmica di Alan Giannini ai tamburi e Andrea Giaro al basso, una cosa sola, le dilatazioni, fughe, cavalcate, sussurri, grida, imprecazioni, invocazioni, silenzi, respiri della chitarra di Michele Diamantini che va dove vuole, se vuole, se appena le prende il ghiribizzo. Questa chitarra che non ha forse eguali in Italia, che ogni tanto si ricorda di Frank Zappa, non di rado di Mark Knopfler, di Mick Taylor, di chi vi pare a voi, comunque sempre di se stessa, è lo specchio di questo gruppo: orgoglioso, ripiegato, marginale, fuori dalle traiettorie, basato su una linearità a tutta prova, scortato da un gruppo di fedelissimi che non sarà oceanico ma ne difende bene lo status di culto (il vinile, di prossima pubblicazione, è figlio del loro amore collettivo). È una lunga elegia dolente questo Mary And The Fairy, ma a testa altissima: non cedono, e non si umiliano. Conoscono il loro valore. Per questo, pare a noi che i Cheap Wine riposino su un paradosso un po' grottesco: per quello che suonano, per come lo suonano, non hanno gran mercato, però non possono oltre contentarsi di locali improvvisati o stamberghe: valgono troppo, sono un gruppo che è cresciuto (è sempre stato) molto più della loro immagine, in controtendenza con il 99,99% dello scenario musicale italiano, indie, alternativo, mainstream, come cazzo vi pare. Di questa distorsione andrà pure tenuto conto perché o li fate suonare, e li fate suonare in teatri, auditorii, insomma posti degni, o li sprecate. Non so se loro si pongano il problema, ma il problema c'è ed è un problema di qualità, di importanza, di rilevanza. Di crescita. Loro sono il gruppo che gli americans volentieri adotterebbero, ma stanno qua. Continuano a suonare, a provare, a comporre, a suonare, a migliorare, a lottare coi mulini a vento, a uscirne comunque vivi, a stento, ma vivi, come cani nell'ombra se vuoi, come tensioni estreme di Giuliano Del Sorbo, fatto è che non possono non suonare, debbono suonare. Per la gioia loro, e di chi li ascolta. Perché suonano come chi per due ore esce dall'inferno, la parentesi di un palco che si apre e si chiude, e fuori torna la vita, che è fatta di ombre, di tensioni estreme, di difficoltà, di abissi sprofondati da cui si vola via col volo di farfalla di un assolo di chitarra. Tutto questo in questo live (che per me trova la sua catarsi sublime nella coda strumentale di Mary), nella musica dei Cheap Wine sempre. Se ne facesse una ragione chi non ci arriva, se lo mettessero in testa impresari, gestori, gente che si riempie la bocca con la qualità ma poi la sputa con l'ennesimo coglione. Ai ragazzi, sommessamente, non un consiglio ma un auspicio: a questo punto, se vi serve, vendetevi anche un po': che cazzo avete ancora da dimostrare? Trovatevi un promoter, brigate, giocate sporco, fate quello che volete, è la causa che lo impone; avete creato, mantenuto viva una realtà che va oltre voi, reclama degne ribalte e lo spazio che merita. Siete cresciuti troppo, vi state maledettamente stretti. 

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