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LA VITA




Quando sabato sera ho esalato l'ultimo saluto al termine di una maratona di 135 minuti e senza contare le 5 ore precedenti sotto un sole di ghisa insieme a tecnici, ospiti, regia, insomma il periodo allucinante che precede qualsiasi evento di una certa importanza, io sono crollato. Mi sono ritrovato sul prato col cielo che mi veniva addosso. Tutti pensavano ad una boutade, credevano facessi il matto, ma io ero proprio andato: non vedevo quasi più, ero completamente disidratato e anche in iperventilazione e le gambe erano di legno tarlato; quando due mani pietose si sono decise a tirarmi su (ridendo, fanculo a loro), ho tracannato una bottiglia intera da un litro in un sorso solo, senza fermarmi a respirare, perché avevo bisogno più di acqua che di aria. Dopo, mi sono messo a camminare tra quelli che sbaraccavano, portavano via strumentazioni e supporti, rendevano la piazza dell'evento alla sua vocazione originaria, insomma reimpacchettavano il tempo. Ma non riuscivo a calmarmi, camminare mi costava una fatica indicibile eppure sempre meglio che restarmene fermo nella paura di non riuscire a ripartire. Ci ripensavo ore dopo, steso sul divano senza prendere sonno. Ci ripensavo, perché non avrei creduto di potermi sottoporre ad uno sforzo simile: la mia condizione fisica l'ho raccontata nel recente ebook “Fottuto”, roba di appena ieri e adesso la vita mi parlava di lei, delle sue infinite possibilità di ripresa, di riscatto. Sì, mi sentivo come il reduce che torna da un inferno, non da una clinica di riabilitazione perché io ho sempre fatto a meno di porcherie, ma da un buco di spossatezza e rassegnazione, sì. Mi sentivo come uno che aveva appena finito un concerto, o un incontro, e se ne tornava in camerino solo. Solo dentro, completamente staccato dal mondo. Con addosso quel torpore di uno sfinimento felice. Ed è stato un concerto, un incontro, perché posso garantirvi che parlare per due ore e un quarto con quella temperatura e quella umidità è roba da atleti e anche belli in forma. Ma io in forma non ci sono stato mai. Non mi sono mai curato, gestito, preservato, anzi ho regolarmente e deliberatamente accumulato fatica, nervosismo e furore, perché sono il tipo che funziona solo sotto una pressione estrema: la vita comoda mi ammoscia, e, del resto, non ne ho mai avuta una. Tantomeno mi è mai piaciuto sottopormi a cautele, sacrifici salutisti. Se uno s'incazza, s'incazza, per me è inutile fare a meno del bicchiere o del piatto pericoloso, non sono quelle le cose che mi ammazzano. Sono le rinunce obbligate non scelte, il dovermi adeguare a una dimensione sempre più stentata e proprio questo racconto nel “Fottuto”, il vertiginoso abbandono di ogni prudenza sanitaria e, di conseguenza, di ogni residua salute. Per anni ho tirato avanti facendo sempre più a meno, di questo, di quello, di tutto. Fino a che sono arrivato proprio al limite, oltre il limite, e qualcosa mi ha respinto indietro. Prima mi sono fatto sistemare i denti, come Keith Richards a fine anni Settanta, e per la stessa ragione: “Cazzo, non posso durare per sempre, sai!”. Poi ho rimesso insieme entusiasmo, energia psichica e rabbia, e di colpo ero lì, su un palco a sudare e a resistere. A fare spettacolo, che per me coincide col bruciarmi in pubblico. C'è chi dice che sono fatto per questa vita, la mia amica Tania me lo ripete ridendo, e qualcosa di vero deve pur esserci perché lei è una artista e conosce il dietro le quinte della vita. A me, per il momento, bastava assaporare questa spossatezza, arrivata quando credevo che non avrei potuto provarla mai più. 

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