Non avevo voglia di tornare a casa, dura poco questo limbo di sere sconfinate e ho voltato la Vespa e l'ho puntata nel quartiere dove ho ancora uno zio. E infatti eccolo, sotto casa, che discute con un paio di coetanei. Mi ha riconosciuto, mi ha preso il braccio con affetto: “Oh Massimo, mi fa piacere, stavo chiacchierando con questi due vecchi, perché siamo tutti vecchi, che vuoi tiriamo l'ora di cena”. Sorrideva, rideva, con le braghe corte, larghe, un rapper decrepito. Questo mio zio non è del tutto vedovo, era appena tornato dall'ospizio dove è ricoverata la moglie, una donna che lui ha adorato, una donna con cui spesso ho litigato perché sconfinava nella prepotenza. Ma una mattina di pochi anni fa si è svegliata e non c'era più, un'ischemia l'aveva cancellata lasciando il guscio vuoto. Li vedevo in giro, lui a spingerla in carrozzina e non avevo coraggio di fermarmi, ma non poteva seguitare così e allora da tre mesi è finita in ospizio. Mio zio va a trovarla ogni giorno, la porta in giardino, le scarta il gelato. Lei non lo riconosce, non ha coscienza di sé, del gelato, non si rende conto di niente. Finché le medicine fanno effetto, il capo crolla, lui la riporta in camera, torna a casa, aspetta cena coi vicini, “i vecchi”. Al mattino invece porta il nipote al mare, ma il nipote ha 12 anni, dice “Ciao nonno” e sparisce, va a giocare a pallone e lui guarda fisso il mare che gli ha portato via il figlio, guarda la tomba d'acqua. Daniele era uno di quei ragazzi di cui si dice “è buono” per non dire innamorato di una vita che l'ha tradito ogni giorno. E più la vita lo tradiva e più la amava. Non ho mai visto nessuno sorridere con tanta fiducia, tanta forza e tanta disperazione: me li ricordo i suoi sfoghi, quando la madre non c'era, per non amareggiarla. Sempre in punta di piedi, da bambino, da scolaro, se la maestra ordinava “Fate un disegno” lui faceva un minuscolo fiorellino, sperduto in un angolo nel deserto del foglio. Poi da adolescente, una mattina di luglio ero a casa sua e di colpo ha avuto un fremito, come trapassato da un fulmine, ha ruotato su se stesso ed è crollato sotto al tavolo e la bocca era storta da una parte. Non riusciva a parlare, mia zia che urlava. Da quel giorno le crisi si son fatte sempre più acute, frequenti, inarginabili, una vita a cambiare farmaci ma dopo un po', puntuale, l'assuefazione. Non era proprio epilessia, non c'era schiuma, non perdeva conoscenza, la sentiva arrivare e allora andava a nascondersi, come un animale, nessuno ha mai capito, una via crucis di cliniche, di luminari ma nessuno ha mai capito. Una volta vedemmo un documentario sui casi limite, le sindromi che la scienza non riusciva a spiegare, ci parve di veder affiorare per un attimo anche lui. Anni prima erano stati in Africa, mio zio era un tecnico dell'Italsider che aveva impiantato stabilimenti in Zaire, le intraprese fallimentari del neocolonialismo commerciale, fallimentari perché non potevi mettere gente nata povera, ma libera, in fonderia. Uno spreco di miliardi, ma non per la politica ladra e visionaria, ottima ad incassare perfino i frutti dei suoi fallimenti. Nel 1974 stavano a Kinshasa questi miei parenti, li chiamavamo al telefono, con parsimonia, e mi facevo raccontare del match del secolo tra Muhammad Ali e George Foreman e mia zia mi raccontava che il nome del dittatore, Mobutu Sese Seko Kokonwenzo Wazabanga voleva dire “Il gallo che non risparmia nessuna gallina”. Poi altri racconti favolosi, terrificanti, l'Africa era ancora un pianeta selvaggio e misterioso, l'agguato degli indigeni che già avevano sfoderato le lance e tutti loro, inermi bianchi mediterranei, perdevano il controllo dello sfintere, il potente ruggito del leone che pareva nel giardino e invece magari stava a chilometri, ma meglio non rischiare, il micidiale serpente settepassi che se ti morde fai sette passi e muori, le mosche che nidificavano nel bucato steso che poi ti infilavi e un giorno le larve si schiudevano, la pelle si crepava, il corpo secerneva mosche come nei film dell'orrore. Allora qualcuno volle dire che forse Daniele aveva preso qualcosa là, un morbo terribile e sconosciuto. Una sera di luglio di dodici anni fa torna a casa dal lavoro in agenzia immobiliare, manda giù una Coca-Cola e dice vado a farmi una nuotata. Mezz'ora dopo mio zio telefonava con una voce che non gli avevo mai sentito, dura, riarsa, una voce di schegge di vetro, “Daniele è morto”. Non gli hanno fatto neppure l'autopsia, il malore era chiaro. Sul giornale apparve la foto di mia zia che urlava sul cadavere. Da allora ha sempre indossato i vestiti del figlio e per dieci anni, fino all'ischemia, non ha saltato un giorno al camposanto. Vicino a lui avevano messo la tomba di una bambina, i genitori erano impazziti e avevano trasformato il loculo in un giardino atroce, straripante di fiori bianchi e rosa.
Io non lo so adesso perché vi racconto queste cose, ma non ho nessun altro per sciogliere il rovo di spine che mi sento in gola, punge tutta la mia tenerezza. E quando mi sento così io vado al porto, spengo la Vespa, ascolto una voce che non so, quella dei ricordi, dei fantasmi, non lo so, ascolto la musica dell'acqua contro i pescherecci che oscillano pigri e si sfiorano, ascolto i gatti che passano tra le reti, tra le bitte, i gabbiani che nel sole s'inseguono urlando. Fino a che scoppio. Allora trovo la forza di tornare. Passo davanti alla carcassa della barca decomposta, enorme, di un azzurro rugginoso e scrostato, il costato putrefatto delle assi scoperte, la barca dimenticata dagli uomini e dal mare e dal tempo, relitto di un relitto, inutile perfino da rimuovere. Non so che nome avesse quando fiera solcava il mare, ma so il nome che vorrei darle io adesso. “Vita”.
Bello
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