Me l'immagino avanti ai suoi fantasmi. I ricordi di cosa fu e non fu. Me lo vedo in fronte ad uno specchio, le sue corde, a dire “chi sei tu?”. Questo è il disco che tanti senatori non riescono più a fare. Uno su tutti, Renato Zero. Questo è il disco di una orchestra di sessantasei elementi, però mai tronfia, mai ridondante: serve alla brezza, ad un respiro pop rock, ora progressivo, ora psichedelico. Questo è un disco alternativo, sì, ma per davvero: alternativo agli alternativi. Sono cinquantadue minuti di musica musicale, di melodia, di ricerca, suoni analogici elaborati da musicisti esperti (basti sentire le chitarre, mai una volta banali). È anche un disco astuto nella sua maturità perché calibrato, dove i cliché ci sono, pensiamo al refrain di “Nel '66”, ma sono cliché di cliché, come modi di dire che però trovano un senso pieno, inevitabile nella costruzione complessiva. Sono porte d'entrata. Questo è un disco da sentire, da avere, perché è il disco di un quasi sessantenne con più cose da dire di prima, che ha fatto dell'assenza (relativa assenza, fra musical e scritture per altri) la sua libertà; e oggi incide come quando e quello che gli pare, senza niente da perdere e tutto da vincere. Perchè se riesci a (auto)produrre un disco così, hai già vinto in partenza, la noluntas delle classifiche, delle ospitate, è vinta a beneficio del rispetto dell'artista, della sua consapevolezza. Gianni Togni è uno che sul suo sito recensisce San Fermin, Jonathan Wilson, e si capisce che musica gli piaccia oggi come ieri. È uno che, se gli fai i complimenti in privato, risponde gentile ma anche scafato: “Non so se me lo merito, comunque grazie”, ed è l'atteggiamento di uno che sa di avere un posto nel pop italiano da classifica ma sa, sente anche di avere conquistato, dopo 40 anni di incisioni, intraprese appena diciassettenne, un ruolo da testimone della musica italiana, un suo spazio infungibile che oggi consacra con Il Bar Del Mondo. Opera uscita dall'osservazione voyeuristica (“Li lascio fare...”) degli antieroi, i normali, gl'irredenti o semplicemente i passeggeri a bordo di un caffè, che in un locale si sentono protagonisti per il tempo di un sorso, una confidenza, e poi scompaiono. Disco, dunque, fecondo di solitudine. Allo stesso tempo è confessione, dura, intensa di un quasi sessantenne che sente il senso delle cose sfuggirgli e non lo nasconde e tuttavia non si rassegna, ne cerca di altri, ne trova di nuovi: insomma un uomo che ridefinisce la sua maturità. Lo fa con testi ispirati nella loro lealtà, lo fa con una musica assolutamente libera (Dio mio Gianni, che mi riporti citando Susy Creamcheese!) eppure, gliene sia reso merito, senza inutili odiosi sperimentalismi, aerei da non prendere mai. Lo fa con passaggi che da bucolici si fanno orchestrali per poi scivolare su una slide discendente, drammatica, quindi le acque si calmano e c'è una nuova quiete che prelude ad un'altra tempesta emotiva.
Proprio così. Ad ascoltare questo disco, ci si emoziona. Non una volta, ma per tutto il disco. Ci si sente perdersi, nell'essenza di sé (“Chi sono io”, con i riverberi di chitarra e il dialogo con le corde del violoncello, prima che il flauto risolva il brano), nella desolazione irresistibile di una Roma sotto la pioggia, e sembra il cielo che piange su tanta magnificenza perduta. E ci si perde nel respiro orchestrale de “La Comparsa”, col suo valzer non grottesco ma empatico, nelle nostalgie arrese della minisuite de “Nel '66”, che lo è perché ha tanto di ripresa finale, su brezza zeppeliniana, nella sconfitta del “Giocatore” di professione, che perde tutto tranne, forse, l'illusione di uscirne, eventualmente il momento più inconfondibile del Togni di successo. Ci si perde anche in una “Tazza di The”, grido disperso raccolto dalla chitarra dove la semplicità non è punto di partenza ma di arrivo, cosa che solo quelli bravi sanno raggiungere. Poi ci sono tante altre cose da dire, da raccontare, “Il Bar Del Mondo” contiene tutto l'orgoglio di un musicista di razza. Ma va a finire che si perde il piacere della scoperta. Perché un album come Il Bar Del Mondo è anzitutto scoperta, quindi conferma, infine compagnia: fatto per restare. È un disco antico, di una classicità moderna. È musica senza tempo, dove il Gianni Togni scintillante di pop affiora per attimi e subito si stempera, dove il cantato è più dolente e insieme più partecipe, benissimo gestita la voce, musica che sorprenderà chi è affezionato ai preconcetti ma non noi, che nell'ascoltare una canzone, un disco, non ragioniamo con l'intelletto ma con la sensazione. Oggi le suggestioni di “Luna”, “Semplice”, “Ma Perdio”, sono dentro. Quelle di “Hey Vita”, “Chi sono Io”, “Invisibili Ma Eroi” stanno entrando. Perché abbiamo questa età, perché abbiamo ascoltato tutto quello che abbiamo ascoltato; questo è un disco che può dare molto, ma bisogna prima avere speso un po' di (hey) vita, abbastanza vita per meritarselo, per comprenderlo in pieno.
Grazie Massimo per questa bella recensione condita da infinite verità.
RispondiEliminaComplimenti da Nando.
Dopo aver letto la tua bella recensione e avere ascoltato tre brani su youtube( Il 66, La comparsa e La cosa più normale ), vado in un megastore per acquistarlo, e non ce l' hanno. Ora, se le radio non trasmettono, i critici non recensiscono e i negozi non vendono, uno può anche aver fatto un capolavoro ma non lo saprà mai nessuno.
RispondiEliminaSi può ordinare via internet. Io l'ho scaricato da iTunes.
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