Confessare un momento di ripulsa, scrivere che non ce la fai più, e ricevere commenti allarmati: non farlo. Ecco lo spunto per riflettere su una pratica che resta un tabù, il suicidio. Umanamente lo comprendo come lo comprende uno che da tutta la vita si dibatte nella depressione e le sue sirene. Eticamente non riesco a non considerarlo con qualche sospetto, perfino fastidio. Non per l'atto in sé e nemmeno per implicazioni religiose, che non sento appartenermi. Semplicemente, mi pare di vedere affiorare ogni volta lo spettro di un narcisismo definitivo, estremo: sono pochi, mi pare, i casi di fine vita autoindotta per squisita (si fa per dire) disperazione, il più delle volte s'intuisce in controluce la tensione di un messaggio al mondo, una lezione, un lascito moralistico. Almeno nei suicidi di grido, quelli di gente famosa, artisti, intellettuali, che forse ammantano di ragioni rarefatte pulsioni molto più terra terra; è come se questi personaggi, dopo una vita nell'alone della gloria (una gloria spesso controversa), e a volte dell'autodistruzione, non accettassero la legge di gravità di destini da uomini qualunque, destini banali; e decidessero in modo tragico, ma eventualmente fatuo, l'uscita di scena. Pesco a caso, qualcuno dirà senza rispetto: ma Cesare Pavese derivava il suo male di vivere da una imbarazzante condizione sessuale di semimpotenza, Luigi Tenco, politicamente infatuato, si fa saltare le cervella durante un festival di canzoni, incolpando la giuria, il pubblico, e perfino la povera Orietta Berti pur di non ammettere che la collega-amante Dalida (a sua volta suicida) gli dava il tormento. Gino Paoli, uno dei tanti, ammanta il suo tentativo di ragioni esistenziali, “Il suicidio è l'unico, arrogante modo dato all'uomo per decidere di sé”, ma l'arroganza celava, tanto per cambiare, ordinari guai sentimentali e finanziari (quam mutatus ab illo...). Lucio Magri si annienta per pene esistenziali, affettive o perché il “suo” comunismo ha fallito? E Monicelli si lascia volar giù da una finestra perché, passati i 90, non accetta, comprensibilmente, gli ultimi incombenti mesi di strazio da malattia, o perché vuol lasciare l'ultima, definitiva provocazione di chi non ha mai subito la vita, le cose, se stesso? Hemingway era un'anima sensibile e tormentata o un invasato dai demoni della letteratura, del sesso, dell'alcool?
Potrei continuare, ma il senso di quanto cerco di dire, credo sia chiaro: io sono talmente mio, e di nessun altro, e di nessun dio, che vi faccio vedere come muore un uomo riuscito, che non deve rende conto a nessuno né della sua vita né del suo contrario. Insomma, l'ultimo gesto di ybris. Dall'altra parte, i suicidi meno eclatanti ma forse più umani, senza sovrastrutture, di chi semplicemente non sa come fare perché si scopre solo con se stesso, abbandonato alla solitudine e alla vergogna, magari vorrebbe vivere ma proprio non ha i mezzi, magari ha un rimorso che lo tormenta, magari ha perso il suo piccolo mondo a forma di fabbrica, distrutto da tragici calendari di sorrisi forzati, di speranze disperate, di uno Stato spietato nel prosciugarlo anno dopo anno. Qui non c'è ybris, c'è solo desolazione. E questi suicidi li conosco e non maturano nell'orgoglio. Poi ci sono i bluff (per fortuna), che però a volte vanno troppo avanti, oppure intendono solo ammazzare chi ha la disgrazia di intercettarli. Più di 20 anni fa intrecciai una breve storia con una ragazza più grande di me di un anno. Li ricordo ancora quei sei mesi, furono l'incubo più fondo di tutta la mia vita. La andavo a trovare e lei mi accoglieva così: è l'ultima volta che mi vedi, appena te ne vai lo faccio. Non sapevo dove sbattere la testa, chiedevo aiuto a tutti, e mi indignavo nel constatare che tutti minimizzavano. Avevano ragione loro, era una manfrina (che per poco non mi spingeva al suicidio), la signorina viveva profonde frustrazioni di carriera e manie di grandezza, finì pure in Africa, seppi poi, a tormentare, suppongo, già provati figli di povertà. Intendiamoci, la fanciulla era totalmente convinta: più che convinta, compresa in un ruolo, e ragionarci serviva a niente. Lo ricordo come un orrendo capriccio (peggio: una trappola), cattivo, malizioso, che in seguito ho intercettato altre volte, fortunatamente da posizioni più neutrali, più distaccate. Da quanto so, la signora è ancora in circolazione, sempre con quell'aria sofferente, anche se lei stessa non saprebbe dire, o meglio ammettere, perché, visto che poi nella vita non le è andata male, salvo per le faccende accuratamente distorte o rovinate. Io non sono un ottimista di natura, e non mi va di istigare chi mi legge all'idiozia del rosapensiero di stampo jovanottesco. Non ho neppure una fede a sorreggermi. Però ho sempre spinto, e non rinuncio, ad accettare il dolore quando c'è, a guardarlo in faccia, a smascherarlo anche dentro noi stessi. Niente scuse, niente stronzate. Non farcela più è umano, decidere di conseguenza è troppo umano, ma che almeno le ragioni siano chiare, almeno non mentirsi in un momento così irrevocabile (e se non ti menti, vedrai che molte tentazioni escono sconfitte). C'è un verso di una canzone di Renato Zero che mi pare perfetto: "Tentazioni e mai la volontà di finirla qua".
Lo ripeto, il rispetto per chi va via è lo stesso senza distinzioni di sorta, ma la comprensione va maggiormente a chi si lascia andare perché non ha davvero niente da difendere: nemmeno una immagine, neppure un equivoco. Sono pochi, temo, comunque meno di quanto si creda.
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