Fa un certo effetto a un cinquantenne ascoltare (e poi scrivere di) Tanz!, il nuovo disco di Andrea Franchi. Perché gli riporta aromi, sapori sintetici di stagioni mai amate, e per di più da un artista che, all'epoca, era ancora un bambino. Ma tant'è: al Franchi il formato canzone da sempre va stretto e in questo disco, che abbiamo avuto il privilegio di vedere nascere nelle sue centinaia di intuizioni, di stralci, di provini qui condensati in 10 episodi per poco più di mezzora di nastro (si sarebbe detto “allora”), lui si è lasciato andare ad ogni passione. Disco di suono più che di canzoni, che non mancano ma sono immerse in momenti sperimentali, fughe soniche, paesaggi di elettronica espressionista. A questo punto, chi legge cerca istintivamente i riferimenti, i nomi da paragone o da giustapposizione: ma Andrea Franchi specifica che tutto è farina del suo sacco, delle fonti, delle ispirazioni se n'è bellamente fregato. Aggiunge poi che “una batteria programmata non fa elettronica: questo è un disco con l'elettronica, non di elettronica. Elettronica, come etichetta, non significa niente per me: io sfrutto tutto quello che ho, tecnologia e strumenti canonici, per esprimere una sensibilità”.
E allora possiamo senz'altro convenire che l'attitudine, e di quella soltanto parliamo, viaggia fra il kraut e il progressive, con escursioni, per l'appunto, negli immediatamente successivi anni '80: citati espressamente, e non può essere un caso, in Occhio Ragazzi, elettrorock ansimante, convulso, che arriva subito dopo nell'intro di Divoratori, incubo vintage con tastiere che riportano dritti ai Kraftwerk. Guarigioni, il singolo che avevamo già ascoltato diversi mesi fa, qui remixato, accelera ancora i battiti e svolge traiettorie melodiche cantautorali su un tappeto sintetico con la voce che dispiega disillusione sul registro alto. Doppio Delitto, molto bella, torna agli anni Settanta (i primi, addirittura, quelli del pop beat), ad una dimensione schiettamente cantautorale, laddove Kitchen è un altro frammento di elettronica vintage compromessa con arpeggi di chitarra acustica e Rodeo, per il testo e la voce del poeta Guido “Pigmalione” Rinaldi, rimanda al primissimo – e ultimissimo – Battiato. Poi un terno secco di canzoni-canzoni: Conquistata Sconfitta, biglietto da visita ideale nella sua intensità, sarebbe De André se non fosse Andrea Franchi, danza di ombre in chiaroscuro di chitarra arpeggiata; e altrettanto acustica è Immigrazioni, che fa parte della nobile schiatta di L'invasore, Superstiti, ovvero come fare di una semplice idea un grande brano; Zucchero Nero ha dilatazioni assolate, polvere western, aperture anni Sessanta, questa volta. Franchi, musicista sperimentale, è passato, e questo va ricordato, da un album di brani come Lei o Contro di Lei a una colonna sonora sperimentale quale Il Topo. A questo punto ci si attenderebbe ancora un incanto come Uno Come Te, e invece arriva la sintesi elettronica del brano eponimo: Tanz! È elettrodiscorock, chiama ancora in causa i Kraftwerk con Giorgio Moroder e una spruzzata di Rockets (già dalla copertina, non è vero?), almeno per me: voi trovateci quant'altro volete, ma senza esagerare, perché Andrea tiene, e ha ragione, a sottolineare che l'ispirazione, su tutto Tanz!, è sua e solo sua (e io che l'ho visto all'opera, posso confermarlo). Tanz! è opera di scenari sonori che si affastellano, vogliono vivere così come sono usciti dalla mente del protagonista. Una mente mai statica, spesso agitata, che non riesce a contenere le idee, le immaginazioni. Il suo tratto più importante, viaggia sottotraccia: è lavoro che parte da un uomo e impatta gli altri uomini, li vuole scuotere, li vuole stanare, compromettere nell'impegno di una vita non più contemplata ma espressa. Musica che nasce dall'introspezione ed esplode nella tensione di un contatto non più evitabile, che parla di umanità all'umanità, nelle sue tensioni, negli slanci, negli incubi (affiora anche il Mostro di Firenze in Occhio Ragazzi), nell'apparente felicità che è il topos di un disco non facile, senza ammiccamenti, senza compromessi, ma estremamente denso, stratificato, ribollente di idee. L'apparente felicità. Quella di chi vive e si consuma per creare, assaporando il sollievo di una creazione che dura un attimo e subito un altro grumo nasce; quella di chi trascorre l'esistenza navigando i suoi mari di dentro; che poi questi mari vengano agitati da brezze diverse, di acustiche arpeggiate o di raffiche sintetizzate, è soltanto strumentale nell'economia di una poetica.
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