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UN GATTO SULL'ALBERO


Le feste di Natale erano una roba che non finiva più per passare in un attimo. Cominciavano un mese prima, con la Prima alla Scala, la città d'improvviso vestita da Natale, elegante in abito da sera, migliaia di riflessi accesi in ogni spazio, vapori di caldarroste ad avvolgerti dolcemente. Da quel momento un crescendo parossistico di fretta, salvo ridursi a far tutto il giorno della vigilia, il più convulso dell'anno. La rincorrevi tutto il giorno quella giornata, passava in un niente e ti ritrovavi esausto e appagato dal tuo dovere consumistico socialmente adempiuto. Natale un vuoto sidereo, da intontire mangiando. E poi Santo Stefano, già triste, già con la polvere del passato addosso. Quindi un traumatico ritorno alla routine, che ti stordiva, che ti straniava, traccheggiavi senza saper bene che fare e quel limbo né festivo né feriale pareva interminabile, ma non facevi in tempo ad assorbirlo che già ricascavi nell'ansia da san Silvestro col suo obbligo sterile di trovare un posto, di divertirti atrocemente, di non restar col cerino della noia in mano, l'umiliazione di non avere inviti che rimediavi sempre alla peggio. Trappole che avresti imparato a eludere solo crescendo, invecchiando. E il Primo dell'anno, altra demenziale mangiata dopo il cenone di poche ore prima, non restava che guardar fuori dalla finestra mormorando, però, si son già un po' allungate le giornate. Era la fine, il progressivo ritorno alla normalità dello squallore, spezzato dalla Befana che non si capiva mai che festa fosse, ma c'era “e tutte le feste si porta via”. Tragica, perché annunciava il rientro nei ranghi, sui banchi della scuola e del lavoro, e tutti ripetevano, meno male, non ne potevo più di queste feste, ma si capiva che mentivano, avevano nella voce il rimpianto di chi, dopo averle aspettate per un anno, non le aveva godute un minuto. Oltretutto si era nel pieno dell'inverno, cominciavano le nevicate, le tormente, la sensazione atroce che non ne saremmo più usciti, resistevo ancora un poco poi all'inizio di febbraio, inesorabile, esplodeva la crisi, una depressione lancinante che toglieva l'aria, che stritolava l'anima, che succhiava ogni forza. E non c'erano amici che potessero risolverla, se ne andava da sola col disgelo, ma non prima. Cominciava, adesso me ne rendo conto, già in quelle feste che per me non sono mai state liete. Tutti ridevano a tavola, si rimpinzavano, mangiavo e ridevo pure io ma in un angolo della mia mente sempre quel pensiero, ogni anno più urlante: quando qualcuna di queste facce mancherà... E mi sentivo un gatto sull'albero, condannato all'indicibile. Adesso mancano quasi tutte, per quel che mi riguarda. E chi resta, tradisce con una fatica che mi lascia desiderare la sua fine, tutto ma non questo annaspare la vita come un pesce nel greto di un fiume. Adesso io di feste non ne sento, non ne vedo, ogni giorno è uguale all'altro, prima, durante, dopo. Scrivo, e questo è tutto. Non c'è dovere consumistico e non c'è attesa di sorta. Adesso Natale è per i quattro stronzi che cinguettano maledizioni sull'Italia perché a Cortina è nevicato non come volevano loro. Senza esser sfiorati dal dubbio che, in un posto diverso dall'Italia, loro sarebbero sicuramente a spalarla, la neve.  

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