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CAMMINANDO NOVEMBRE


C'è ancora il sole ma lotta contro il vento che lo sta spingendo via. Soffia via quel fantasma d'estate che m'illudevo non sarebbe mai morto fino alla prossima estate. Ma così va, ogni vivere è fatto di stagioni e della nostra impotenza a fermarle. Tutto torna a regime, e sarà il freddo, il freddo di cristallo sulle valli, sui rami delle piante, sul buio precoce che la sera cala come un sipario. Fino a quando, nessuno può dirlo. Quest'estate irredenta ha dirottato fantasie di novembre, quando la pioggia ridisegnava la città e il sabato era attesa fatta di niente e la città era tante rotonde, tante piazze dolcemente innaffiate, il profumo dell'acqua che risaliva dai nastri d'asfalto, dalle miscele di smog e brillavano luci dietro i vetri, davanti ai tuoi occhi. La città può essere squallida e elegante, sotto la pioggia, a volte insieme. Quei sabati. Quei sabati sotto gli ombrelli accompagnando il vecchio nella processione pomeridiana tra i negozi, giusto per salutare, per entrar dall'amico gioielliere che teneva la pistola sotto il banco, dalla signora della boutique con cui scambiare amabilmente frasi fatte, così riposanti al sabato e poi le sigarette al solito tabacchi, la rosticceria dalle “sorelle Bandiera”, i due fratelli scapoli che meno li sopportava mio padre e più ci andava, una deliziosa via crucis conclusa al bar per la schedina matta, così matta che mai una volta uscì. Quei sabati che poi, cresciuto, spendevo da solo in epiche partite nel fango del parco Lambro e poi di corsa a casa, a ripulirmi bene e subito fuori ancora, fino all'ora dell'ultima serranda scesa. E l'indomani sarebbe stata solo uggia invasa da compiti, il vero incubo che mi porto addosso ancora. Ma quei sabati di novembre, che il freddo lo vedevi eppure bastava un amico per trasformarlo in allegria. Bastava il quartiere. Bastava una metro che ti portasse in centro e già ti sentivi straniero, non al punto da non goderti novembre, i caldarrostai loschi, i venditori ciechi di fortuna, la pioggia che batteva sul Duomo e la voglia di tornare nel guscio del quartiere. Ti sentivi metropoli tu stesso, infinitesimo elemento fondante. E girare a capo scoperto sotto la pioggia, piazza dopo piazza, rotonda dopo rotonda, viale per viale e le immense radiali, semaforo a semaforo, nella sfilata infinita di palazzi antichi, settecenteschi, nobili, regge inaccessibili a un ragazzo del popolo, invalicabili parchi dietro i cancelli perfino per la fantasia, e poi tuguri minacciosi, cattedrali di polvere, desolanti odori che fuggivano dai portoni tetri, condomini snob e case popolari, l'immensa varietà della metropoli-alveare, i suoi angoli ora malavitosi ora elitari, era tutta passione che inzuppava le ossa, allagava l'anima e non mi avrebbe lasciato. Mai, mai. Camminavo la città a bordo di scarpe da tennis sentendomi schiavo e padrone, vittima e carnefice. Camminavo ed ogni posto lo conoscevo e la sua noia mi teneva compagnia. M'infilavo negl'inferi del metrò e tra gente come me sentivo vita. Vivo mi sentivo, sporco, precario ma irrimediabilmente vivo. Adesso la pioggia cade su una valle muta e il silenzio tiene solo silenzio. Quando non c'è il sole non si vede niente e mi pare questa vita che non capisco niente e non credo sia viva, e non so se c'è stata.  

Commenti

  1. che bella descrizione della Milano "autunnale" di quegli anni e che contrasto con il presente....per tutti molto doloroso, sotto ogni profilo

    Davide, Milano

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  2. a volte viene voglia di mandartici, ma poi leggo queste righe e ,anche se milano l'ho vista 4 volte ed ho sempre vissuto in un paese di 5 mila anime( per me la CITTA' era ed è parma) sono tutte cose che ho visto e provato.
    chapeau.

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