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UNA MUSICHETTA


Una musichetta captata nell'aria, non conosco il titolo, mi accende una scintilla: questa l'ascoltavo nell'intervallo. Che intervallo? Quello delle partite, un'era geologica fa. Strani pomeriggi di sabato in bianco e nero, il Te Deum di Charpentier che accendeva l'eccitazione, il delizioso rito della squadra ospite in divisa candida per distinguerla dalla padrona di casa agli occhi dei telespettatori, gl'inni nazionali scanditi da quelle facce improbabili, da gringos, lunghi capelli, basettoni, i tratti belluini della gioventù strappata al contado per farne campioni ingenui e feroci, l'arbitro, unica macchia nera, impettita nella sua divisa, il telecronista quasi rilassante, e una tensione composta, che dagli spalti non arrivava, giungeva ovattata e si disperdeva nel salotto di casa, dal teleschermo brevi fiammate di gioco a spezzare lunghi periodi di stanca e poi, d'improvviso, l'intervallo. E partivano le musichette, che musichette non erano: le piccole sinfonie di Bacharach, la magica tromba di Chet Baker. Grandi musiche eleganti, che si potevano quasi buttar là, quasi sprecare per un intervallo tra due tempi di una partita non ancora da farcire di ridicole chiacchiere, d'infuocate polemiche sull'acqua e di assurdi collegamenti fin nell'armadietto dei giocatori. Solo a me pare che in quelle cinquanta sfumature di grigio si nascondessero più toni che negl'infiniti schermi al plasma di oggi, nelle insulse siglette telefoniche di oggi? Altra storia, quelle musichette lussuose che non ascoltavamo e ci tenevano compagnia, sprecate, ma quando finiscono?, c'era il tempo di andare in cucina, mangiare una merenda, ed ecco, una breve pubblicità e ritornava il logo dell'eurovisione, la sigla famosa, il collegamento, le squadre che tornavano in campo e sembravano pigre, svogliate. Ci chiedevamo cosa mai fosse successo in quei sancta sanctorum non ancora violati da orrende telecamere che erano gli spogliatoi mentre noi ci sorbivamo le narcotiche musichette. Altri tre quarti d'ora di noia, garantita e quasi perenne, perché difficilmente in quei sabati pomeriggio si giocava all'arrembaggio, e poi il telecronista, educatamente, felpatamente, salutava, l'annunciatrice c'informava che “in diretta via satellite” da qualche parte avevamo visto la partita dell'Italia, c'era giusto il tempo di scendere a commentare con gli amichetti: come? Giocandoci su. Ed è già sera, e si mangia “qualcosa di buono” e ci sono i cartoni animati dalla tv svizzera e magari, dopo, un varietà che fa ridere come Sandra e Raimondo. Fine della scintilla, m'è rimasto il tarlo di quella musichetta dal nome sconosciuto. Che faccio, mi metto a canticchiarla qui? A proposito. Ecco, mi ricordo dove l'ho sentita: iersera a Civitanova, aspettavamo un'amica e un suonatore ambulante con la faccia da scemo, ma che scemo non era, con un ridicolo Panama in testa e una maglietta panciuta a righine, le scarpe da pensionato delle poste, la chitarrina elettrica collegata un piccolo amplificatore, un tipo fuori tempo ma senza età, proditoriamente ha tirato fuori quel ricordo in bianco e nero. Ed io mi sono sentito più infelice, perché capivo che un'era geologica fa, senza saperlo, ero più felice, e non sarei mai più stato felice così, mai più felice di così.  

Commenti

  1. quando fai questi stupendi rimandi agli anni'70 i brividi scorrono per chi c'era e si ricorda molto bene quel vivere e quel tempo

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    1. E' proprio quello che provo io; mi fa piacere se arrivo a contagiare chi mi legge.

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