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LA TESTA PIENA


Sono così stanco, e schifato, e nauseato di vedere preclari ladroni, cialtroni, assassini farla franca, trionfare, pontificare con tutta l'arroganza e pretendere di essere creduti, e venire creduti, e venire pagati. Sono stanco di vedere il mondo alla rovescia, il male che trionfa, il bene che si mortifica. Così pieno di rabbia, di vergogna, di amarezza nel vedere una giustizia che non vince mai, che si nasconde, si rinnega, si fotte. Così esasperato di cercare una spiegazione che non c'è, una morale che non si trova, un Dio che non esiste, non ne posso più di constatare che nessuna buona azione resta mai impunita, che ogni nefandezza riscuote sempre il suo prezzo, che non c'è salvezza nell'onestà, nella mitezza, nella bontà. Più di tutto sono stanco di non poter scrivere che un farabutto è un farabutto, una puttana è una puttana, un incapace è un incapace, che un morto di fama è quello che è, che c'è gentaglia, autentica feccia in giro, che approfitta, che inganna, che sfrutta, e che illude. Mi hanno rotto i cinici che sono solo gretti, gl'indifferenti sempre così voraci e attenti, gli schiena dritta sì però a novanta gradi, i finti solidali sulle ossa dei santi. Ho la testa piena, le palle piene, sono tutto pieno di questa frustrazione davanti alle vittime di mestiere, ai sepolcri imbiancati, ai figli di puttana, alle nullità certificate, ai campioni del vincere sporco, agli immuni e gli impuni, agli impudici allegri, ai sudici colpevoli di suicidi, di vedere che vengono presi sul serio o almeno si finge di credere loro, perché così conviene, perchè sono potenti, perché fa comodo, perché fa curriculum. E i deboli, i fragili, gli umili lì a scontare la loro colpa di non sapersi difendere dalla vita. Neppure una lacrima per loro, nemmeno un granello di polvere. No, non c'è niente di giusto a questo mondo, niente di buono, di sensato, di normale. Niente che va come deve andare. Neppure una vendetta. Neppure un fiore che spunta.

Commenti

  1. Per il Greco, dunque, dal dolore, visualizzato non nella modalità cristiana dell’espiazione della colpa, ma nella modalità tragica dell’ineluttabilità della legge di natura, nascono quelle due forme, non di rassegnazione, ma di resistenza al dolore che sono: il sapere (mathésis) che consente di evitare il male evitabile, e la virtù (areté) che consente, entro certi limiti, di dominare il dolore.
    Perché la virtù, qui intesa come forza e coraggio di vivere al di là delle avversità, sia efficace, è necessaria la misura (métron), senza la quale anche la forza e il coraggio di vivere vanno incontro alla sconfitta, perché l’uomo che vuole andare oltre il proprio limite decide anche la sua fine. Quando diviene tracotante la sua forza volge in debolezza, la sua felicità in sciagura. Per questo la virtù chiede all’uomo di essere attento al suo limite, e questa attenzione i Greci l’hanno chiamata phrónesis, prudenza, saggezza.
    Non bisogna provocare gli dèi. I Greci non credevano agli dèi, ma li hanno ideati come esseri non soggetti alla morte (athánatoi), solo per dire quello che l’uomo non è e non può essere, quindi per indicare una misura in un duplice senso: l’uomo non può diventare immortale come un dio, ma col modello immortale del dio deve restare in tensione, per generare, come dice Dante, riprendendo il mito greco di Ulisse, virtù e conoscenza.
    Qui Dante coglie l’essenza della grecità che, per uscire dallo sfondo tragico, non escogita speranze di immortalità, sarebbe tracotanza (hýbris), ma virtù e conoscenza per alleviare il dolore e procrastinare la morte. E questo in omaggio alla vita che, nel suo limite, per il Greco non è “valle di lacrime”, ma bellezza.
    La pratica filosofica vuole recuperare questa saggezza greca. Essa guarda l’uomo non come colpevole (cristianesimo) o malato (psicoanalisi), ma in modo più radicale come tragico. Di conseguenza non chiede la salvezza o la guarigione, ma il contenimento del tragico, attraverso le vie della conoscenza e della virtù, qui intesa come coraggio di vivere, nonostante tutte le avversità, grazie al governo di sé, secondo misura (katà métron).......rivedere parametri, cambiare piani esistenziali, ciò che distrugge può anche salvare e non sempre scavando si da luce all'orrore. A mio modesto parere non ci sono soluzioni diverse dalla consapevolezza della veridicità di quanto sopra, per non annegare forse dovremo affondare ancora di più (nell'accezione comune) scoprendo forse che ci son fiori che crescono persino sull'orlo dell'abisso. Suerte amigo.

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    1. di troppo dolore ci si inaridisce e si muore. le piante come gli animali come gli umani.

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    2. Non sono d'accordo, dipende come lo interpreti, che valenza gli dai e soprattutto se hai la consapevolezza che fa parte dell'esistenza. vabbè non importa.idee diverse, diversi sviluppi interpretativi..voleva solo essere un modesto contributo ad una difficoltà che ci accomuna.ribadisco..suerte!

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  2. essere consapevole non vuol dire darsi pace, non asciuga la ciatrie, mi pare una consolazione falsa, il dolore non si interpreta, si subisce.

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