Alfaterron, Alfasudore, carro
bestione. Quante ne ha dovute passare la mia prima macchina, quasi
nuova, appena quinta o sesta mano, gloriosa Alfasud verde smeraldo anche
se i miei compagni la sputtanavano: verde ramarro. Poi un giorno
videro spuntare dal finestrino le gambe lunghissime di una ambita
compagna, che finivano in paio di vezzose ballerine, e non parlarono
più. Ma era più fumo che arrosto, le ragazze le caricavo, come
tutti i diciottenni provvisti di una qualsiasi quattroruote nel
1982, ma ero diventato più che altro un tassista. Non fu solo
capriccio quel catorcio: allora vivevo a Carugate, che condenserà in
eterno tutto lo squallore della “Brianza velenosa” di Battisti, e
per guadagnare piazzale Loreto, Milano, dovevo alzarmi alle sei.
Tramite famigerata autolinea pulmann Villa, coi bigliettari maniaci e
ubriachi, arrivavo alle otto precise. Al ritorno, mi toccava
aspettare alla metro di Cimiano fino alle due, bruciandomi lo stomaco
in un pacchetto di sigarette a stomaco vuoto. Rivedevo il lugubre
campanile di Carugate alle tre e mezza e mi aspettava un piatto di
pasta d'amianto sotto un piatto rovesciato, ormai saldato all'altro, che mia
madre aveva cotto due ore prima: il tempo di buttarla giù con
l'ausilio di un mezzo fiasco di vino (mentre la mater distratta si
fiondava sulle telenovelas), ed era già ora di seppellirmi tra i
libri. Alla fine mio padre, impietosito da quella vita da emigrante,
scovò chissà dove quel reperto automobilistico e, tutto orgoglioso,
me lo mostrò, lucido di autolavaggio (fu la prima ed unica volta),
le chiavi infilate nel cruscotto. Cominciò così l'epoca
dell'Alfaterron, essendo io notoriamente di radici marchigiane.
Al volante me la son sempre cavata
da dio, perché a Carugate una delle poche cose vive era
l'autoscuola; pochi mesi dopo, sciagurato, già facevo le gare per
Milano, il che dovrebbe sconsigliarmi da patetiche raccomandazioni ai
giovani d'oggi, rispetto ai quali io non razzolai certo meglio. In
primavera, sfinito da due anni di merda nella Brianza velenosa, mio
padre ritraslocava di peso la famiglia a Milano, a costo
d'indebitarsi, ancora in quel quartiere di Lambrate dove avevamo
lasciato la vita. Durerà poco, ma intanto io prendevo l'Alfaterron,
caricavo mio fratello e dicevo: andiamo a Carugate, a vedere
l'inferno che abbiamo lasciato?
Durerà poco, ma in quei mesi intensi io, castellano di un intero piano di casa solo per me e il
fratellino, nonché automunito (in via Capranica la lasciavo
regolarmente in seconda e terza fila, all'alba venivano a svegliarmi
automobilisti imbufaliti), vissi momenti di gloria e della maturità
incombente chi se ne fotteva. Sguidazzavo beato, la spia della
benzina perennemente in riserva, col mio buon amico Ugo Dell'Orto che
motteggiava: finirà per fulminarsi, quella lucetta. Andavo anche a
trovare mio padre in ditta, a Vimodrone, scendevo e mi parevo un
adulto.
Era una macchina curiosa: quando
pioveva, si allagava, ma contro le leggi della fisica: compariva una
pozzanghera proprio sotto la pedaliera, ma infiltrazioni non se ne
vedevano e nessuno, né carrozzieri, né meccanici né esorcisti,
riuscì mai a spiegarsi l'arcano. È chiaro che, allagandosi, si
bloccava e all'epoca non c'erano i telefonini, venitemi a raccattare,
questa stronza non dà segni di vita. Un'alba tragica più lugubre
delle altre, l'antivigilia di Natale del 1983, si rifiutò di
accendersi, ma aveva ragione lei: uscivamo da 19 ore filate come
comparse nella Premiatissima di quel negriero di Berlusconi, a
Cologno Monzese, e dovette venire, non tanto contento, il padre di
Dell'Orto a recuperarci.
Naturalmente la mia Alfasud verde
pistacchio la sottoponevo ad ogni operazione di chirurgia acustica,
montando casse sempre più terruncielle, ora ai lati delle portiere,
ora anche in regione lunotto, superwoofer e bassi rimbombanti. E
appena finita la maturità, un paio di mattine dopo, scendemmo nelle
Marche, i miei sulla macchina “loro”, io e il fratello
sull'Alfasud. Ero così distrutto dopo settimane di studio, poco, e
di bagordi, troppi, che feci tutti e 500 i chilometri d'autostrada a
pilota automatico: gli occhi a pimpineddra, mi addormivo e mi
scuotevo per subito cascare ancora nel Nirvana. Strafatto peggio di
Ron Wood nei concerti del 1981. I miei non potevano saperlo, mio
fratello non ci badava, io ero un criminale. Avrò bevuto ottanta
caffè in quell'Anabasi privata, l'autoradio coi bassi sussultori, ma
serviva a niente. Non lo so come riuscimmo ad arrivare e per giunta
integri.
Non sapevo che quello era il mio
capolinea. La mia, la nostra vita stava già entrando in un vortice
del quale ricordo tutto ma fatico a ricordarlo, per giunta
m'innamorai di una sana ragazza di provincia, di quelle che il buon
Philippe Daverio, col senno del poi, avrebbe senz'altro definito
“Un'autentica trraia!”, e un plumbeo 26 ottobre del 1984 mi
ritrovavo a vivere per sempre nella casa del mare, che poi era una
specie di bungalow. Per sempre no, ma ci restammo sedici anni senza
tempo e senza scopo. Arrugginivo insieme alla mia Alfasud, ancora e
sempre Alfaterron perché anche nelle Marche il razzismo non mancava,
un controrazzismo alla rovescia, ma non meno acceso e meschino: “Che
vuoi, tu di Milano, vattene via, non ti vogliamo, non sei come noi,
noi stiamo bene per conto nostro”. Ma io, come mio fratello,
cercavo solo amicizie. Finché ci stufammo di venire trattati come il
poveraccio di Gente per bene gente per male di Battisti. Mi
restava l'Alfa, sempre meno verde, sempre più incrostata di ruggine.
Sempre più allagata nei pedali. Ma non mollava, lei come me,
accompagnandomi nelle ultime avventure surreali come la volta che
trasportai mia madre da un dentista in campagna, crudele campagna
novembrina, lungo la Statale si mise a piovere e la macchina si
bloccò all'istante allagata. Il tempo d'incamminarmi alla ricerca di
pietoso elettrauto e già piombava lo scemo che, vedendo quella donna
seduta in un'auto equivoca, le chiedeva: quanto vuoi? E mia
madre gli spalancava gli occhi e la bocca in un sorriso sdentato da
strega, al che il puttaniere sgommava via bestemmiando sconvolto.
Non lo so come la uccisi la mia
piccola, devota, squallida, eroica Alfaterron. Probabilmente la lasciai da
uno sfasciacarrozze, ma quando accadde, e dove? Non lo so, io proprio
non ricordo, questo l'ho cancellato. E, potete credermi, ne ho ancora rimorso. Come di
quella volta che, sotto il temporale, ovviamente mi lasciò a piedi,
dalle parti di via Rizzoli, dove c'è la sede dell'omonimo gruppo
editoriale, proprio alla mercè di un campo nomadi ed io persi tempo
per andarla a recuperare e il giorno dopo la trovai aperta come una
scatola, sventrata, due buchi al posto delle casse superbass, e mi
guardava come un'amica che avevo lasciato alla mercé dei bruti.
Ne ho vista passare una proprio
ieri, stesso colore, stesso rumore spettacolare della marmitta,
chissà se si allagava al posto di guida collassando inesorabilmente.
Ho pensato al mio scrigno di splendori e miserie. Ho pensato che, con un po' più d'amore, saremmo ancora insieme, oggi
sarebbe auto d'epoca ed io la esibirei come il trofeo che meritava
d'essere, e che quei mostriciattoli meschini dei miei compagni non
avevano mai capito.
qual'era la colonna sonora ?
RispondiEliminaPer l'Anabasi Milano-Marche? Synchronicity dei Police
RispondiEliminacazzo se la ricordo, davanti al Carducci con la Rambaldi a sventolare le gambe....tutti vecchi decrepiti oramai e sull'orlo del trapasso....
RispondiEliminaE io mica racconto balle. E non sono per niente decrepito.
RispondiEliminala cosa che , personalmente , trovo strana e' che : non esistono piu' attuali equivalenti a cimeli fascinosi come questa alfasud, o come le nostre peugeot-talbot ( la mia "alfasud" ), ecc...
RispondiEliminaVp
...ce l'aveva un mio zio, stesso tragico problema con la pioggia. La sua era rossa, con l'antenna che seguiva la linea da squalo ciccione.
RispondiEliminama un mezzo cosi' non ha avuto eguali.
a lui e' stato dedicato uno dei piu' bei versi della canzone popolare italiana ("E canto please don't let me misunderstood, mentre parcheggio nel parcheggio l'alfasud", Discomusic, EelST) e il personaggio di Ametrano in Bianco, Rosso e Verdone non sarebbe stato tanto efficace se non avesse guidato questa somma meraviglia popolare.
Uguale identica a quella di uno dei miei migliori amici. Ricordo ancora le serate passate insieme ai miei soliti 3 amici, circa trent'anni fa, in inverno, con la nebbia, in un paese di montagna, senza nessuno in giro. Ascoltavamo musica a tutto volume e ci lamentavamo che non sapevamo cosa cazzo fare! Da veri sfigati! Ogni tanto dividevamo i soldi per la benzina e ce ne andavamo in un posto un po' più "vivo" sperando di far colpo su qualche ragazza. Speranze puntualmente disattese! Eravamo sfigati di professione. Ma quelli erano i miei amici più grandi. E lo sono tuttora!
RispondiEliminaGrazie per avermi ricordato quei momenti.
Matteo.