Adesso
Bersani non è più tronfio come lo vidi quattro mesi fa, quando
diceva che, da premier, avrebbe gestito il tutto “come una
cooperativa socialista” e si degnava di avere accettato le primarie
come esempio di democrazia. Furono l'esatto contrario, un gioco delle
tre carte, da magliari, che dimostrò come un partito personale, alla
Grillo o Berlusconi, non fosse poi tanto diverso da un partito
oligarchico. Nel frattempo Bersani ha vinto le primarie truccate ma
ha perso elezioni già vinte, Renzi ha perso le primarie ma ha
stravinto sul piano personale e adesso è l'ultima thule per un
partito più allo sbando che mai: il preincarico al segretario non
è una conquista, è una umiliazione che rischia di finire in modo
più mortificante di come è cominciata. A questo punto Bersani può
insistere con il Politburo, facendosi puntellare da comici come
Saviano, dalle varie cosche berluscofobiche e perdendo per la strada
qualche altro milione di voti; oppure può liquidare la nomenklatura
lasciando spazio al rottamatore che vuol dialogare con chiunque ma
non farsi umiliare da una setta di invasati. Prendendo atto che chi
vota PD, e sono ancora tanti, s'è soavamente stufato delle sacre memorie, dei
totem di Togliatti e di Berlinguer e allo stesso tempo non si fida
della farsa eversiva di Grillo come delle lucciole di Vendola. E non
gliene frega niente di misurare il tasso di sinistrismo o di
berlusconismo di Renzi, vuole solo riconoscersi in un partito che
tenga conto del disgraziato tempo in cui si annaspa piuttosto che
delle mescite socialiste del tempo che fu.
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