Si avverte un disagio
sottile nell'ascoltare il nuovo singolo di Renato Zero, “Chiedi di
me”. Come davanti ad un eccesso di intenti, a una sovrabbondanza di
significati. Come se davanti a noi ci fosse uno che vuole convincerti
di qualcosa, di non essere mai cambiato, di essere sempre quello.
Come davanti ad una excusatio non petita. Forse, per non dire sempre,
quando si arriva a voler convincere gli altri, è il segno che in
realtà si dubita di noi stessi, si vuol persuadere noi stessi. Zero,
da uomo intelligente, non può non avere intercettato le perplessità intorno alla sua figura e alla sua musica, sempre più
rassicurante, sempre meno spiazzante;
e, da artista intelligente, non può non averne provato a sua volta
un disagio, un fastidio, che infine dev'essersi fatto ingombrante:
adesso vi faccio vedere io. E ve lo dimostro con questo nuovo lavoro che fin dal titolo
reca la classica dichiarazione d'intenti: AMO. Un disco del quale si
parla da mesi, e che l'interessato, finora convitato di pietra di se
stesso, considera il più completo, ambizioso, innovativo della sua
carriera.
Di rivoluzionario, a
giudicare da questo singolo, in realtà si faticano a trovare indizi.
C'è un altro livello di suono, questo sì, che riporta ad impasti
electro-dance anni Ottanta, naturalmente aggiornati alle tecnologie
digitali e orizzontali di oggi (ascolta il rullante secco, appiattito
ma in delay). Non a caso, visto che, come tutti ormai sanno, la
produzione è in larga parte affidata a Trevor Horn. Musicalmente,
“Chiedi di me” ha un tempo sostenuto che riporta a “Resisti”
(da Via Tagliamento, 1982), con un commento d'archi spumeggiante ma
più da sigla di Canzonissima che da “Viva la Rai”, sberleffo
feroce, en travesti, che annunciava il siparietto in “Fantastico”. E con un testo che, se tecnicamente risulta ben assemblato, prodigo d'assonanze e rime ritmicamente cadenzate sugli accenti sonori,
quanto a contenuti lascia perplessi. C'è il solito, consolidato invito, non privo
di recriminazioni e mezze ammissioni (“Avevo lo stesso bisogno di
sperimentare, capirci di più”), a fidarsi di lui, di Zero, a cercarlo quando ci si sente a
terra o semplicemente annoiati, insomma la sperimentata e mai facile
complicità col pubblico. Gli inviti, gli ammiccamenti, si sprecano.
Poi, di colpo, un inciso che pare un sasso nel motore, con
quell'invito a “godersi una bella giornata di sole”, a ritrovare
energia positiva: siamo di nuovo alla raccomandazione pedante di “Sorridere
sempre” e dintorni. Dintorni che speravamo, e speriamo, in questo
disco imminente, d'esserci lasciati alle spalle. Quindi la cavalcatina
riprende, con un paio di passaggi polemici, non privi di fondamento,
su “quei bigotti laggiù”, che si limitavano ad osservare mentre
lui, Renato, seminava e scompigliava dubbi al suo passaggio. Fino
alla chiusura insinuante, quel “Fallo!” che probabilmente è
innocente, ma farà la delizia, c'è da giurarlo, della componente
più sessualmente militante, gravida com'è di implicazioni e
suggestioni anni Settanta.
Singolo furbetto, ma che,
a trascurabile parere di chi scrive, non convince. A me ricorda
l'inseguimento di un miraggio, della magia si trova l'assenza. Un
singolo è un singolo, intendiamoci, e va preso per quello che è:
una anticipazione, un assaggio, non necessariamente lo specchio di un
nuovo disco, che si annuncia oltretutto molto denso, molto lungo. Ma
questi quattro minuti, per me, lasciano il tempo che trovano e,
insieme, una certa malinconia se penso ad altri singoli lontani,
talmente dirompenti che non è neanche il caso di citarli qui.
Possiamo benissimo credere che Renato Zero sia sempre lui, in termini
di atteggiamento verso la vita. Anzi, ci crediamo senz'altro. Ma
questo, musicalmente, come vibrazioni, non trapela più, almeno fino
a questo estratto dove anche gli stati d'animo sembrano costruiti,
trattati, filtrati. Al resto del disco le conferme o le smentite.
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