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NEL TRAMONTO

Ho bisogno di vita

NEL TRAMONTO
A zonzo in Vespa come da troppo non facevamo. D'estate c'è troppa estate per fonderci in scooter, la messa in piega atroce dei caschi, e d'altra parte il mare è fatto apposta per fonderci in lui. Ma ormai la stagione è finita. Saliamo a Macerata, che è una città morta, talmente felpata da indurre fastidio e anche un'angoscia sottile: io non sono fatto per questi posti, belli ma stordenti di quiete, quelle ondate silenziose tra i vicoli semideserti, di rimbalzo contro i palazzi storici, tutto elegante, notevole, pregiato ma io ho bisogno di vita. E invece, estate dopo estate, il mio carattere è cambiato, la malinconia ha preso il sopravvento. Qui abbiamo studiato, io e mia moglie, facoltà di Giurisprudenza, nell'Università più tetra del mondo. Ero sempre da solo, non conoscevo nessuno e pensavo: cosa mi sta succedendo, proprio a me che ero uno zingaro della confidenza. Macerata è bella ma si sta macerando, spirano le sue vetrine, il suo passeggio, il suo commercio, c'è un'aria come di liquidazione dell'intera città, qualcosa di raggelante nell'aria tersa di questo caldo pomeriggio. Divaghiamo con indolenza, è aperto il negozio di dischi dove non posso più andare, anzi ora gli chiedo se prendono ancora cd usati, altri esercizi che non ci sono più, sbarrati da una saracinesca abbassata per sempre, ma ecco un assembramento lungo il viale Garibaldi, l'inaugurazione di un bar, un po' di animazione finalmente. Due prosecchini ce li concediamo anche noi, perché no?, e dopo, mia moglie trova una fornaio dove prendere 4 biscotti al mosto, “come quando eravamo fidanzati”. Li sgranocchiamo in Vespa e naturalmente mi perdo, ma non m'importa anzi è così bello scoprire nuovi scorci di un posto consumato di consuetudine per poi ritrovare la bussola. Difatti già mi oriento, recupero la direzione, soltanto passo davanti all'ospedale: nel sole che declina, è un attimo: quegli angosciosi viaggi della speranza, guidavo io, mio padre non poteva più. Quelle meravigliose aurore di maggio, e poi la sentenza, senz'appello. Un ultimo cappuccino al bar, in mezzo ad altri malati terminali, e lui disse: “Non m'importa di morire, ma di lasciare la mia bella famiglia”. E non aveva avuto mai un cazzo, uno di quegli uomini che per la famiglia si uccidono, si consumano. Nel tramonto reggo il manubrio fingendo di non piangere.

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