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CHIEDERE DI VIVERE


CHIEDERE DI VIVERE
Stasera era l'ultimo martedì delle bancarelle estive, ma ce le siamo perse perché avviandoci lungo un desolato tramonto di fine agosto mia moglie ed io quasi inciampavamo in un sorcio che ci è corso fra le gambe. Non era un sorcio, era un gattino di due mesi massimo, di un bianco e nero coperti di grigio per il gran stare sotto le macchine. Abbandonato sicuramente, ci ha detto una donna che abita lungo la via: era pelle e ossa quando è spuntato, lei l'ha nutrito con gli avanzi ma venerdì riparte e il gattino si dovrà arrangiare. Il che vuol dire morire: non può cavarsela, è stato in una casa, mi dico mentre mi passa e ripassa tra le gambe e mi guarda insistente con gli occhietti azzurri, un piccolo muso già intelligente. Come si fa? Ah, dice la donna, io non me la sento proprio, ho paura di prendermi qualche malattia. Si potrebbe portarlo dalle due amiche veterinarie che stanno proprio nella strada parallela, loro si occupano dei gatti sfortunati, ma a quest'ora è chiuso e non mi sento proprio di farle accorrere d'urgenza, una tra l'altro ha appena partorito. Restiamo d'accordo che domani mattina la donna lo porterà all'ambulatorio, vincendo la sua repulsione, e chi vivrà vedrà. Ma non mi fido mica tanto mentre ci avviamo e il piccolo micio sporco ci viene appresso, è come se si rifiutasse di lasciarci e quella che mi pare una preghiera disperata e orgogliosa mi fa stare male, mi scombussola. Ormai i gatti li conosco abbastanza da sapere che non c'è affetto, c'è solo istinto utilitaristico: ma non per questo m'intenerisco di meno, anzi se mai quel piccolo paraculo, che già ritorna sui suoi passi, deluso, rassegnato, mi mette ancora più in crisi. Mi viene un'idea. Salgo da mia madre, ci trovo mio fratello e mia cognata che imprecano perché la televisione sta dando la notizia di una strage di gatti credo nel Salernitano. A questo punto non posso più tirarmi indietro. Rimedio una scatola di cartone, un paio di guanti di gomma – sicuramente il bastardino sarà pieno di pulci – e torniamo a cercarlo. Eccolo, sbuca da una macchina e torna a strofinarsi. Lo infilo nella scatola e ne schizza fuori come una molla. Allora mi risolvo a prenderlo in braccio, al diavolo le scatole, i guanti e le precauzioni. Manda fusa disperate ma non si sottrae, anzi mi guarda fisso, come volesse capire le mie intenzioni. Saliamo in macchina, mia moglie guida, mi è venuta un'idea. Lo portiamo da Alberto e Maria Grazia, che hanno un bed and breakfast, “La tenuta del conte”, poco distante, in campagna, dove i gatti vanno e vengono. Per tutto il tragitto il micio se ne sta buono, accoccolato nella mia presa e non smette di guardarmi: mi ricorda Nerino quando andai a ritirarlo da Franca, a Macerata. Lui però stava nel trasportino, questo invece non ha niente, ha solo un destino segnato e, per il momento, il mio petto. Arriviamo e Alberto come lo vede fa la faccia scura: ah no, eh, basta, qui sta diventando un gattile, caro mio te lo pigli e te lo porti a casa. Provo a mercanteggiare un po', ma non c'è niente da fare, Alberto non sente ragioni. “E fammi almeno salutare tua moglie, prima di cacciarmi”, lo imploro. Alberto chiama Maria Grazia, ma col tono che userebbe per mandarmi in mona e a quel punto capisco che c'è una speranza, guarda Grazia chi t'ho portato, le dico, e lei, oddio, guarda un po' se non è bello e me lo strappa quasi dal petto e se lo incolla al suo sentenziando: dove c'è posto per tre, c'è posto anche per quattro. Il micio intanto in quella bella fattoria s'è spaventato, o spaventata, neanche l'ho scoperto, e il suo ultimo saluto è una bella “sgagnata” a pollice e indice. Vado via sollevato: a giudicare da come mozzica, è in salute e pieno d'energia. Lo lascio in ottime mani, è un gattino scombussolato ma non sa d'essersi salvato, un attimo fa stava in strada coi giorni contati, adesso è nel posto migliore dell'universo. Salvarli tutti non si può, ma io ho ricevuto troppo di tutto dai miei gatti per lasciar lì un trovatello, se lo vedo. Se mi segue con la sconfinata tenerezza di chi è disposto a tutto pur di vivere.
Ripenso alla prima volta che ci sono stato, alla Tenuta del Conte, era l'inizio della stagione. In questa estate che ormai spira, ci ho portato alcuni fra gli amici più cari, prima Mauro e Antonella, poi Francesca, infine Paolo Benvegnù. Tutti hanno trovato più di un posto dove dormire, hanno trovato qualcosa di molto simile a quel che chiamiamo casa. E adesso questo piccolo paraculo senza nome, che la casa l'ha trovata per davvero. Andremo a trovarlo, prestissimo, e lui non saprà mai. “Delinquente” mi sfotte Alberto, burbero “non ce l'hai un po' di cuore”. Io tornandomene penso che quel gattino mi ha insegnato l'umiltà dell'orgoglio, il coraggio dell'insistenza. Quanto mi sarebbero serviti nella vita, e invece spesso preferisco morire pur di non chiedere.

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