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INVECCHIARE DA ARTISTA


INVECCHIARE DA ARTISTA
Considerazioni leggere, fatue se volete, su come gestire un lascito d'artista. C'è chi si accartoccia sempre più, ma con stile e densità di contenuti, come Tom Waits. Chi con fatica tiene botta oltre il lecito, è il caso di Iggy Pop. Chi implode nei suoi soliloqui, ma con truce dignità alla Lou Reed. Chi scoppia credendosi infrangibile e così pregiudica (e anticipa) una splendida uscita di scena, vero Keith Richards? Chi sembra avere fermato davvero il tempo, e ci riesce solo Mick Jagger. Chi semplicemente si lascia essere se stesso, ma bisogna chiamarsi Bob Dylan. Chi si nega, non sentendosi più in grado, ed è l'immenso sacrificio di un istrione di nome David Bowie. E chi si lascia andare e pare schizoide nell'annegare in un passato al tempo stesso rinnegato, e questo si chiama Renato Zero. Confesso di non capire più un personaggio che era riuscito a scuotere l'Italia bacchettona e vaticana in tempi non sospetti e non facili. Uno che pagava il suo essere sempre avanti. Adesso lo vedo amministrare se stesso, un pretone sempre più somigliante a Lucia Annunziata, fin troppo facile da parodiare (e in questo l'”amico” Panariello è spietato, perché mostra quanto facilmente ci si può trasformare in un simulacro). Quando canta, Renato Zero è sempre parecchie spanne sopra gli altri. Ma questo suo talento ha finito per diventare l'alibi che scusa tutto, che mette tutto a posto. Canzoni che non gli appartengono, da uno qualunque, non uno che è stato Renato Zero, formalmente ben costruite ma prive di qualsiasi magia. Trovate da avanspettacolo romano. E un modo di porsi incomprensibile, da totem che si lascia adorare e non capisce che è assurdo concedersi, in un programma di pretese leggere, una tirata sulla Siae commissariata, roba da Equitalia, burocraticamente strampalata al punto che la stessa Raffaella Carrà deve trasformarsi in Elsa Fornero e stopparlo con provvidenziale tempismo. E poi, chi era il presidente della Siae se non Giorgio Assumma, legale di Zero? E poi, andiamo, star lì a curare il borderò, quoque tu, Renato? Tu, che sei uno dei dieci che in Siae fanno la parte del leone?
Un totem, un feticcio di se stesso, sempre più appesantito, che dovrebbe partire, forse, magari, chissà, per un tour europeo annunciato e poi obliato, ma con quel fisico, quella pancia imbarazzante su una corporatura esile? Certo, gli anni ci sono, ma lasciarsi andare in quel modo è imperdonabile (e vestirsi così è anche peggio), perché né carne né pesce, sempre in mezzo al guado: o ti arrendi definitivamente e ti trasformi in Demis Roussos, acquisendo un altro carisma, o lasci perdere le fettuccine, fili in palestra e ti riprendi un po': così invece è come restare a un passo dal coming out fisico, dall'esplosione e non raggiungerla mai. Lo stesso in musica. Uno che nel '79 girava per Roma abbracciato a Nurejev (quasi oscurandolo), e poteva permettersi di colorare un panorama musicale polveroso e supponente, si riduce a gorgheggiare improbabili inviti a “Sorridere sempre” (chissà adesso, con la Siae commissariata...). A vederlo, questo artista che viveva di emozioni, si prova l'impalpabile ma insinuante sensazione di un disagio che nasce proprio dalla mancanza di emozioni, di stimoli, di musicisti capaci di metterti ancora in crisi. Di quello che era, in una parola. Leonard Cohen, a 78 anni, ha fatto un capolavoro sulla vita, sulla morte, sul tempo che rimane e le troppe cose ancora da fare.

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