FORSE SONO MATTO
Due giorni che sono
nervoso come un gatto, più dei miei gatti e non capivo perché e non
lo capivo perché era troppo semplice: da due giorni c'è una ventana
o, come dicono qui, una venteria che urla – siamo in campagna – e
sbatte contro la casa e i vetri e mi agita, scompiglia i miei
pensieri, mi riporta ricordi che non vorrei ritrovare, non vorrei mi
trovassero e invece mi chiamano con la voce del vento, “Cercavi
noi?... Cercavi noi?...”. Io invece in primavera voglio prendermela
comoda e infatti se posso non rincaso mai fino a che il cielo non si
è vestito per la notte. Voglio pensare che c'è più tempo, perché
il giorno dura di più e puoi fare più cose o almeno farle
lasciandole anche un po' andare, va bene, usciremo più tardi, tanto
c'è ancora luce. Questo è ciò che mi piace di più della stagione
“bella”, rivoluzionare le abitudini, sapendo che c'è ancora un
margine di vita. Mi piace perdere tempo per guadagnarlo. Da ragazzo
adoravo stordirmi, pensate un po', davanti alle edicole, aspirare
quel certo odore di traffico e di giardini misto a carta dei
giornali, restavo ipnotizzato dal concerto di colori delle copertine,
specialmente i fumetti, e pensavo che quello era il lavoro per me.
Invece sono finito dall'altra parte, e so che molti a questo punto
penseranno: cambia strada, che sei ancora in tempo. Ad incantarmi,
senz'altro: le edicole non hanno mai smesso di chiamarmi, di
risucchiarmi nel loro incantesimo perché profumano di gioventù.
Anche le notti, per
quanto più brevi, durano di più. Le puoi girare, attraversare, puoi
fermarti su una panchina sotto la luce gialla di un lampione e
discutere o semplicemente ascoltare l'aria. Puoi farla tua la notte
in estate, puoi entrarci dentro e fartela entrare dentro e portartela
a spasso. È questo, è il non essere più separato da un vetro che
mi piace, nella stagione del sole. È alzarsi e trovarlo e pensare
che ti stava aspettando e che, per per quanto vuota potrà essere la
tua giornata, qualcosa tuttavia succederà; anche la noia ha un altro
colore, dipinta dal sole, dal tepore.
Ieri sono andato sul
viale Roma, a Porto San Giorgio, che è scandito da piante tutte
ingemmate: è un rituale per noi, andare a vedere se finalmente sono
fiorite. E c'è una pianta, una delle più piccole, che infatti è
sempre la prima a metter fuori le foglie, ed è un piccolo
spettacolo. Le altre sono cariche di boccioli chiusi, lei le ha
fregate tutte e adesso si vanta, tenera, magnifica nel suo nuovo
look. Le altre tradiscono ancora l'intrico dei ramoscelli da cui
filtra la luce, lei è già luce essa stessa, luce verde abbagliante,
respiro di foglioline soffici, morbide, ma cariche di vita
orgogliosa. Io aspettando mia moglie andavo e venivo sotto quelle
piante col naso all'insù, forse sembravo matto, forse un poeta,
forse un ostinato bambino ingrigito, forse solo l'inventore di
patetiche filastrocche che qualcuno dice. Ma mi sentivo sentirmi, e
per un attimo la mia anima di vento si avvertiva in pace, con se
stessa, con le piante, col mondo. Anche quel leggero dolore, quel
sottile dispiacere, come canta Lucio Battisti, mi teneva compagnia,
mi faceva bene.
La gente mi guardava,
forse come un matto, ma io sorridevo, e mi piaceva, e mi piacevo.
Avrei potuto fermarmi lì per la vita.
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