Ecco qua un bel paradosso servito caldo. Tutto il mondo si preoccupa del mondo, anche il nostro nuovo primo ministro è andato alla Cop 27 in Egitto a dire che bisogna sconfiggere quella cattivona della CO2, a battersi il petto come italiana anche se l'Italia “inquina” per un decimale di anidride carbonica all'interno dell'Europa, che ne produce una tonnellata l'anno a fronte delle dieci e più della Cina, per non parlare dell'India. Difatti Cina e India alla Cop 27 non ci vanno, se ne fregano. L'Italia sì e si allinea a quel programmino conosciuto come Agenda 2030, che, nel sacro nome di Greta, punta, fra le altre cose, ad abolire le emissioni. Il che significa abolire l'automobile, perché quella elettrica sarà pure silenziosa, ecosostenibile, inclusiva, qualsiasi cosa voglia dire, ma non è più auto, è altro, è una centrale elettrica semovente, con molti fattori critici sui quali però nessuno si degna di soffermarsi. Pena di morte per l'automobile: però, forse per reazione, forse per rimorso, siamo invasi di nostalgia canaglia per i veicoli d'epoca (che inquinavano sul serio): non c'è telegiornale, testata giornalistica, sito, social che non celebri le magie di quelle vetture cariche di storia e di magia.
Chi possiede un veicolo storico lo sa: niente è come guidare un modello di cinquanta, settanta, cento anni fa. Questione di feeling e anche di una memoria che è del Novecento, con le sue tragedie e le sue conquiste. Millemiglia, corse, trofei, rassegne, kermesse: tutto uno sviolinare sull'incanto di “quelle automobili”, davvero macchine, d'altri tempi, d'altra classe, i cui profili restano, spesso, ineguagliati. E poi il rombo del motore, inconfondibile per marca, tipo, epoca, ogni auto la sua voce, unica come quella di un cantante lirico. Come la mettiamo? La mettiamo che il futuro non aspetta nessuno, ma è comunque una ipotesi mentre il passato è una certezza, per quanto evaporata. E di questa volatile concretezza si nutrono i nostri geni di uomini del secolo scorso con la passione per la libertà di immaginare.
Tutto questo, e molto, molto altro, le Cop 27, le UE, le trovate dello Stranamore di turno, vogliono cancellarlo, relegandolo nell'oblio della coscienza; ma la coscienza è più forte, conserva le auto antiche, ne fa cimelio e testimonianza, evento e orgoglio. Tutto questo i media lo sanno e allora, mentre cantano le magnifiche sorti e progressive dei veicoli elettrici, navicelle su strada presto pilotate “da remoto”, riescono allo stesso tempo a celebrare le vestigia di un lascito irripetibile. Non fu solo tecnica e non fu solo design: erano scintille di una genialità forsennata che scandiva i passi della modernità novecentesca. Oggi quella voglia di andare oltre si è spenta, governa un altro tipo di tecnica, frigida, senza poesia, che si fa “perché si deve fare”, “perché il pianeta ce lo chiede” (davvero il pianeta chiede questo?), ma in modo scontato, automazioni per automatismi. È difficile armonizzare un paradosso, ma con l'ipocrisia è anche peggio: come si fa a rimpiangere ciò che si vuole uccidere? Che il motore a combustione sia il killer di ghiacciai e foreste è quanto meno discutibile, sembra più fondata la profezia canora di Lucio Dalla, “il motore del Duemila sarà bello e lucente, sarà veloce e silenzioso, sarà un motore delicato, avrà lo scarico calibrato e un odore che non inquina, lo potrà respirare un bambino o una bambina...”. Ci stavamo arrivando, per gradi, ma qualcuno ha deciso che il motore del Duemila doveva morire, andava sostituito da una ben più tossica alimentazione elettrica. Ce n'era proprio bisogno? Chissà, certo la “transizione” verde in favore dell'umanità finisce per provocare solo in Italia una falcidie di seicentomila posti di lavoro nell'automotive: quella è umanità a perdere? Che l'auto senza auto vada a vantaggio del pianeta è dubbio, che vada a pro dei produttori di batterie, cioè la Cina, è garantito, ma una cosa è certa: l'auto storica è storia, e la storia non muore.
Commenti
Posta un commento