Stasera torno qui. Fa
caldo, è da una vita che non ci vengo più. E scorrendo la Strada
Nuova, la Piazza, il Corso arriviamo nel budello scosceso con l'odore
di muffa che sale dalle segrete dei palazzi vetusti e in fondo al
budello la grande casa sorta sulle rovine di un convento, dove il mio
sangue cresceva, il sangue che un giorno mi avrebbe generato.
Talmente enorme, con le sue cinque stanze da dormire, due bagni, il
salone, il salottino e la cucina, che ci tenevano studenti a
pensione. E gli studenti a volte sposavano, diventando parenti.
E la casa non c'è più.
C'è un rudere tetro, persiane sdentate, portone scrostato, “citofono
non funzionante”. Ma cosa è successo? Vorrei entrare, vedere
ancora una volta quel corridoio che a cinque anni avevo completamente
scrostato a forza di pallonate sul muro, ma è sbarrato con la forza
dell'oblio. Tutta una rovina, come nella canzone di Lucio Battisti.
Io qui ci ho passato quindici estati, fino all'adolescenza; qui c'era
il mare; mai avrei pensato di finirci a vivere, mi sentivo sospeso.
La sera la luce gialla dei lampioni faceva brillare il selciato ed
era tutto. “Andate a prendere l'acqua alla fontana”, perché
l'acqua mancava sempre. Da piccoli ci portavano talvolta all'oratorio
san Carlo a vedere il calcetto ed io ero tutto eccitato perché
avevano le maglie dello stesso colore, come i calciatori veri. Gli
spettatori inveivano furibondi, insultavano i giocatori per casati,
per generazioni. Ricordo un paio di concerti, si potevano vedere
dalla terrazza del bar ma ero troppo piccolo. Anche dal terrazzo
della grande casa qualcosa si vedeva, l'ideale per le sere d'estate,
ci tirava sempre una brezza, e c'era anche una dondolo, e una bella
sera i grandi organizzavano la pesca più squallida che si potesse
immaginare, perché si vincevano le cianfrusaglie che erano già
nostre. Eccolo lì, il terrazzo. Come è morto ormai... Perché lo
vedo abitato da assenze che sorridono? Tu, che mi rispondevi sempre
da un ospizio e poi un giorno non hai risposto più. Tu, che hai
spento nel mare la tua disperazione. E tu, che invece l'hai scagliata
contro un treno... E non mi pare vero sia così fragile esistere,
così facile smettere.
Per i vicoli di mattoni,
sulle pareti dei palazzi antichi nei cui anfratti s'infilavano i
gatti, regnavano pozzanghere di silenzio, ombre d'eternità.
E non vedevo l'ora
d'andar via, e adesso scopro che qualcosa m'è rimasto dentro di
quella casa tetra, che mi faceva ammalare. Le luci silenti dei
lampioni, le salite a prender l'acqua con le taniche, la paura non lo
so di che, i volti sconosciuti, fisionomie distratte, tutto così
squallido e evocativo che mi entrava nel sangue. Mi cambiava,
diventavo malinconico. Girare per quei vicoli tirava fuori qualcosa
che non sapevo di avere, un abbandono, un senso di morte al quale non
sapevo rinunciare.
E adesso sbatto contro
quel cartello rosso sangue, “Vendesi”, e non ci posso credere:
io, qui... Tutto parla di me, tutto racconta di me come mai mi ero
accorto, se guardo bene posso vedere ancora sui muri del vicolo
sagome di scritte sepolte sotto strati di tempo, e il sapore di muffa
è la stesso e i gatti che mi guardano e scappano sono gli stessi; se
cerco bene, lo vedo il fantasma del bambino spaventato, che tirava
pallonate all'intonaco dell'atrio.
E nel fiume di gente
indifferente mi scoppiava in cuore una bestemmia e pensavo, non c'è
niente, niente, dopo non c'è niente, noi passiamo la vita aspettando
il momento giusto e così lasciamo scorrere il rubinetto dei momenti,
ma la vita non esiste, non è una cosa che ha una coscienza, che
tiene conto dei tuoi sacrifici, delle tue virtù, è una roba che non
c'è mentre passa e passando ti fotte. Non ti riscatta. E ogni volto
d'Iddio è una colossale, eterna consolazione. Non può esistere una
vita dopo una vita che non c'è.
E allora ho alzato gli
occhi fino all'ultimo piano e mia moglie ha capito e non ho dovuto
raccontarle un'altra volta la storia di Marcellino, il bambino
affacciato lassù in alto che mi salutava con la mano. “Quello chi
è?”. “E' Marcellino, ha la tua età”. “E perché non viene
in terrazzo a giocare?”. “Adesso è ammalato, ma dopo guarisce”.
E di lì a qualche giorno lo vedevo pedalare furibondo sulla sua
biciclina, un'energia di stella che esplode, ma poi lo ritrovavo
ancora su in alto a salutarmi. “Ma perché è tutto pelato?”.
“Perché qui siamo a Fermo e a Fermo si usa così”. “Allora
voglio pelarmi anch'io”. “No, tu no che poi torni a Milano e i
compagni ti canzonano”.
E l'agosto seguente appena arrivato guardai su e chiesi, “Come sta Marcellino? È guarito?”. “Marcellino non c'è più, è andato in cielo”, e la finestra lassù era chiusa.
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