Sarà quest'ottobre di
sole, sarà che un amico mi ha appena mandato un paio di canzoncine
del liceo. Sarà che me ne andavo trentatré anni proprio di questi
giorni, ma non ho mai avuto così nostalgia per il mio posto.
Stavolta non esistenziale, tutta sociale ormai: meritavo io di stare
lì, quella era la mia cornice. Quel fantastico luogo, al 4 di via
Carpi, su piazza Gobetti, in esito di una via malinconica e lucente,
scandita dagli alberi, un condominio che da un fianco ha una banca,
dall'altro una cappellina quasi privata. Di quei luoghi che la città
può anche imbruttirsi in certi passaggi, ma restano belli, resistono
e prima o dopo tornano meravigliosi. Talmente ben concepiti che
nessuna miseria più annullarli. Entravi, varcando la portineria
ampia, elegante e per raggiungere il tuo lotto, terzo di tre,
collegati da vialetti, tante piante, gl'innaffiatoi che sbuffavano
acqua di frescura che a sentirla dal balcone ti cullava, i globi che s'accendevano la sera e potevi indugiare nell'aria, perfino un
fazzoletto di cemento come giardino per noi bambini, c'erano quei
cinquanta passi che ti facevano sentire protetto e condiviso. Sì, là
fuori avrebbe potuto anche esserci il covo brigatista di via Monte
Nevoso, ma qui era l'enclave di cinquanta famiglie e non ho mai
sentito in undici anni un problema, un vociare. Quello era il posto
che ancora oggi le agenzie denominano “signorile”, un luogo dove
un provinciale marchigiano come mio padre, impiegato, poi piccolo
industriale, poteva convivere insieme a professionisti, commercianti,
chirurghi, manager, tutto in perfetta armonia: “Oh, signor Del
Papa, ha fatto le spese di Natale?”. “Non me ne parli, qui
finiamo tutti a gambe all'aria”. E non era vero e lo sapeva, nei
Settanta che non erano solo piombo e fumo chi aveva voglia e talento
poteva uscire fuori e i soldi giravano, una ascesa sociale, moderata
ma certa, era possibile. Adesso è tutto calcificato, ascendono solo
le carogne, i figli di troia che capiscono subito come vendersi nel
mercato del nulla mediatico. Quando cominciai col Mucchio, circa
vent'anni fa, ero innamorato di Giorgio Bocca e ne ricalcavo tutte le
critiche alla globalizzazione in modo anche infantile, fazioso.
Crescendo, comparando, mi ero accorto che insieme al male c'era anche
il buono, che non era sempre berlusconismo registrare le avanzate di
un mondo che, sia come sia, faceva passare i miserabili da uno su due
a uno su sette in vent'anni. Adesso sono totalmente disilluso. La
globalizzazione informatica è stata utile per i poverissimi e i
ricchissimi, ma quelli che lottano a filo d'acqua, o di merda, li ha
sommersi, li ha annientati. Uno come me allora non avrebbe faticato a
conquistarsi un ruolo, invece ha lottato ogni giorno per niente,
cominciando ogni mattina da capo, finendo ogni sera nel niente. La
classe media non ha più senso, l'ascesa sociale che sognava si è
tradotta in frustrazione che genera violenza, sulle donne, sui
diversi. Sembra assurdo, ma oggi, pieni come siamo di indignazioni,
consapevolezze e garanzie, c'è più intolleranza di allora. Ha,
aveva difetti, tare la maledetta borghesia? Sì, non più del
patriziato e della plebe, in compenso aveva doti sconosciuta alle
altre due, il suo ruolo di cuscinetto, soffice, mobile, l'ipocrisia
sociale che legava, che teneva insieme. “Buongiorno a lei, signor
Del Papa”, e incontravi altri come te col vassoietto di paste
domenicali. In quel posto, il mio posto, dico che anche se ti
annoiavi, anche nelle domeniche lugubri non ti sentivi mai davvero
abbandonato. Convivevi tra duecento persone, che tutte si
conoscevano, si salutavano e quel minuscolo mondo non era finto e lo
amavi, lo amavi quando tornavi da scuola, quando saresti mai tornato
dal lavoro e imboccavi il vialetto del giardino, come un'anteprima di
quello che ti aspettava a casa, una partita alla tivù, un disco
nuovo, un bel libro, una serata di pioggia dietro ai vetri. Non è
vero che si sta bene da soli: dipende da chi hai intorno. E non è
vero che la gente popolana, vernacolare, è meglio, queste sono
ipocrisie pasoliniane che nascondono un sottinteso di dominazione. Tu
sei anche dove abiti, cosa abiti ed io, mi spiace, io che continuo a
cambiare case, zingaro senza libertà, io il mio terremoto cominciato
nel 1984 non l'ho mai concluso. E qui, mi dispiace, non è il mio
posto. Perché non ne faccio parte, non ci sono nato, non ci sono
cresciuto: tutto qui. Perché non mi sono mai sentito né protetto né
condiviso. Non mi è rimasto, a un certo punto, che fare buon visto,
prendere il meglio, ma un meglio non c'era. L'errore è stato mio:
rifugiarmi nelle suggestioni da poeta, rinunciare al resto per il
rumore del mare, queste cose qui. Ma non è vero che non si vive di
solo pane, che tutto è superfluo: lo dice solo chi non conosce
miseria, o sanità mentale. Lo dicono i falsi mistici e scomodano
quel che definiscono mistero, scandalo della fede. Difatti è
scandaloso: non tiene un minimo di coerenza logica; è impossibile.
Contentarsi è stato l'errore, confidare in un Dio il vicolo cieco.
Dio non esiste. Non c'è niente di sbagliato nel cercarlo, è il
trovarlo che è esiziale. Umano, inevitabile affidarglisi, ma se tu
parli con lui non c'è niente di male: è quando lui parla con te,
che qualcosa non funziona. Se tu ti aspetti che sia Dio a salvarti,
addirittura a farti giustizia, te la pigli in culo e te lo meriti. Ma
quanti lo scoprono tardi? Io rimpiango il mio posto, che da una vita
non ho. E se uno non ha il suo posto, non ha nessun posto. Protetto e
condiviso. Da solo in mezzo agli altri. Un uomo non può vestire in eterno una pelle non sua, a me è successo proprio così. Che potessi,
dovessi fare altro, pretendere, incarognirmi, adesso ci sono
arrivato, ma adesso è tardi; e comunque, non ho ancora capito i
lineamenti, le strategie. E a sistemarmi, sia pure via dal mio posto,
c'ero anche arrivato: bravo come sono sempre stato, nessuno ha mai
potuto insegnarmi niente, ho sempre lavorato sui miei limiti,
cercando di risolverli. Così, un bel giorno era pure arrivata la
chiamata. La solita #quellavoltache ha aperto le gambe, ed io mi sono
ritrovato alla catena mentre la spezzavo. Non è successo una sola
volta, non ne faccio un dramma, ma è per chiudere il cerchio di
questo soliloquio, il cerchio del rimpianto che la nostalgia lo
spacca. Avevo il talento per rivincere il posto mio, una vita
diversa, una esistenza migliore per mia moglie, che meritava,
viceversa, il posto non suo, lontano dallo stagno. Ho un carissimo
amico (tu sai chi sei), con cui mi sento vivo, date le nostre
avventure: egli è legatissimo, com'è giusto, alla sua storia, al
luogo nativo, ma ogni volta mi dice: se non mi fossi formato a
Milano, non saremmo qui, amici noi, a giocarci scommesse pazzesche; e
a vincerle. Ha ragione, e la ferita sanguina. Io adesso mi ritrovo
con un orgoglio sterile, le tante cose fatte, scritte in quasi
trent'anni, quello che sono riuscito a diventare per chi mi segue,
aver saputo resistere a tutto, non essermi imbastardito al netto di
un certo cinismo. Che sono niente lo so, che non ho fatto niente lo
so, che ho scritto sull'acqua e nel vento lo so, che ho sbagliato
tanto lo so, ma ciascuno difende le sue illusioni. Ancora un gatto mi
porta via il cuore, e se c'è da compromettermi, non mi tiro
indietro. Non ho mai taciuto. Ma non mi basta, il rimpianto mi
divora, sono orfano di me stesso, e solo al suo posto un uomo può
essere un uomo, può essere la sua vita.
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