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IL COME, NON IL CHI


Dei miei viaggi esotici, pochi ma buoni, conservo soprattutto una suggestione che sa di nostalgia: il gran casino, il mescolarsi delle genti, il trafficare tossico e vitale, come ad Hong Kong che è una Napoli elevata a New York e che avevo imparato a girare anche dove non si doveva, anche nella città sotterranea che ricordava una immensa Casbah. Là, nel termitaio torrido di malsana umidità, mi sentivo respirare, qui in provincia dove sto adesso mi manca l'aria fra gente ristretta che, per non sentirsi da meno, urla a un'invasione che non c'è. Questo per dire che mi trovo male, compresso tra i due fuochi del razzismo gretto, che c'è, e dell'antirazzismo militante, che non è meno sciocco e meschino. Non trovo, voglio dire, una via di mezzo in cui riconoscermi, una landa della ragione cui riparare: o da questa parte o dall'altra, ed entrambe sono palesemente assurde, ed entrambe non lasciano intersezioni, nella società civile, nei giornali, in politica. Quando ho scritto una serie di articoli in difesa di Emmanuel, il rifugiato nigeriano ucciso da un balordo di Fermo, mi è toccata una gogna scontata da parte dei paesani su internet. Ma se scrivo che non ne posso più di farabutti maghrebini che rischiano di falciare mia moglie alla guida di auto pirata, mi toccano le stesse conseguenze da parte opposta, mi tolgono il saluto, mi cancellano dalle amicizie social (che dramma). Non riesco a far passare un messaggio molto semplice: non è il chi, è il come. E rivendico il diritto alla diffidenza, pronto in ogni caso a ricredermi. L'anno passato l'ho passato all'inferno, a causa di una cosca di malviventi confinanti, tra i quali alcuni macedoni che, ci spiegava soavemente la polizia, “sono pericolosi, possono ammazzarvi, quindi state buoni”. Spariti quelli, nel palazzo di fronte è arrivata una tribù di albanesi e io ho pensato: ci risiamo. Invece hanno elevato la qualità di una strada finora famigerata: mai un disagio, i giovani lavorano, il vecchio bada ai nipotini, le donne tengono la casa, per quanto vedo dal mio balcone, come una piccola reggia. Siamo diventati buoni vicini, se fossi in difficoltà andrei a suonare il loro campanello, più che da tanti indigeni che mi stanno francamente sui coglioni e dei quali indovino miserie che proprio non mi attraggono.
È il come, non il chi. Usa molto pronunciare la litania politicamente corretta, “razzismoxenofobia”, tutto attaccato, ma sono due cose diverse se non opposte. Razzista è chi considera il suo gruppo etnico o stanziale superiore a tutti gli altri, come i fermani che dicevano, ah quell'Emmanuel, se l'è cercata, non si provoca un figlio nostro, non si risponde se ti dà della scimmia; e quando chiedevo, ma perché, se uno ti dà della scimmia, tu che fai? “Io lo ammazzo, porco Iddio”. Ecco, questo è razzismo in forma di localismo: il peggiore. La xenofobia è altro, è avere paura e si giustifica perché a dettarla è il come, non il chi; quando, a forza di casistica, di precedenti (e per me, che faccio il giornalista, la cronaca conta), il come diventa chi, fatalmente il pregiudizio si instaura, ma un cliché spesso nasconde o almeno sorge da un pizzico di verità.
Il come, non il chi. Se una banda di ragazzini dedita a stuprare prede in spiaggia ha una matrice africana, se ogni giorno qualche maghrebino o subsahariano infierisce, se certi gruppi etnici scaricano qui i peggiori, senza niente da perdere, io ne debbo tenere conto: la diffidenza è anche un istinto che salva la specie. Osservare che “gli italiani delinquono di più”, senza considerare le proporzioni, è una dissonanza cognitiva da gente più alta che intelligente, un gioco delle tre carte che lascia il tempo che trova. Se il padre di due giovanissimi stupratori li convince a costituirsi, è semplicemente vacuo osservare che è un genitore nobile, a paragone delle mamme e babbi italiani complici e omertosi: certo che lo sono, ma papà Risorsa è semplicemente un pregiudicato (mantenuto dai servizi sociali con la famiglia, tutti con precedenti) che conosce il codice più del Corano, e che si è messo subito a mentire e a trattare per i figli, né più né meno degli italiani. Chi difende roba così, non si accorge di difendere dei delinquenti in quanto esotici, e insieme di difenderli in quanto regolarizzati italiani. È un gioco dei bussolotti, che qualifica chi lo fa.
Il come, non il chi. Siamo stati emigrati, ripete la vulgata politicorretta. Sì, ma mai con questa arroganza, con la prepotenza di chi occupa stabili, in appalto alla mafia dei centri sociali che li sfrutta, e che scende in strada con cartelli che dicono: “Italiani razzisti, vogliamo casa, sussidio e dignità”. Mai vista a memoria d'uomo una migrazione nella quale chi arriva pretende di imporre le proprie regole anziché assoggettarsi, con i dovuti margini di autonomia, a quelle di chi li accoglie: si chiama conquista, non bisogno. Mai visti, spiace ripeterlo ma è la realtà, tanti poveri con i gadget del consumismo avanzato, mai visti così sfottenti e aggressivi nel pretendere l'elemosina, “dammi un euro!” e poi inseguono le donne, le infastidiscono. Il come, non il chi. Il don Biancalani che porta gli immigrati in piscina non dà nessun fastidio, figuariamoci: lo dà, invece, la sua chiosa, la sua esaltazione che lo porta a denunciare a destra e a manca (a manca, soprattutto) fascisti e razzisti, come a giustificare il senso di una missione. E lo dà anche la foto dei ragazzini che, immersi in piscina, mandano a fanculo, fanno boccacce. Come lo danno le ONG che scrivono sulle fiancata delle navi “fanculo Italia”, agevolano il traffico degli scafisti e vengono tenute in odor di santità dai so tutto io che non capiscono niente: è bastato arginarle per ridurre sbarchi colossali, che degeneravano regolarmente in stragi di affogati. E chi sbarcava finiva nelle grinfie dei solidali che li strizzavano, altro che salvataggi. Come nei palazzi di piazza Indipendenza e via Curtatone a Roma. Ma l'arroganza con cui queste ONG, e chi le sosteneva, si manifestano, è a tenuta stagna, non ha ritegno di nessuna conferma e di nessuna smentita.
Qui arriviamo a un altro problema. L'insofferenza di ritorno, ferma restando la tracotanza di chi pretende e non gli basta mai (e non ringrazia mai, perché ha letto da qualche parte che tutto gli è dovuto), sorge anche, se non soprattutto, dagli eccessi illogici, ipocriti, ideologici di chi è disposto a tutto pur di non vedere. Di chi è sempre pronto a colpevolizzare l'insicurezza e la paura, di chi accoglie perfino l'Isis come viatico per la lotta al capitale e all'Occidente (lo facevano già le Brigate Rosse quando l'estremismo islamico vestiva altre sigle). Si arriva al punto che, di fronte agli stupri e alle violenze sulle donne, altre donne restano zitte, scantonano, si cercano improbabili riletture della storia, ci si rifugia nel colonialismo premoderno, come se un occidentale per giustificare un crimine dovesse, che so, tirare in ballo le conquiste del feroce saladino. Un totale rigetto di ogni responsabilità, il giustificazionismo esotico, l'impunità patetica. Anche per questa strada poi si arriva a buttar tutto nel mucchio, a lasciarsi tentare dalle sirene del razzismo. Io continuo ad avere nostalgia dei miei viaggi confusionari, del mio sentirmi sballottato nel mondo, ma so anche che una società multietnica non si improvvisa, che la via europea al multiculturalismo ha generato violenza e attentati, che spaccare le statue di Cristoforo Colombo e trovarlo divertente è solo il segno del livello miserabile cui è arrivato l'Occidente. So anche che non mi sta bene che quando un islamico insulta e minaccia chi lo accoglie, resta per definizione “moderato”, mentre appena un cristiano (in senso lato, culturale) se ne spaventa o adonta, passa subito per crociato. Evidentemente, anche tra le divinità, vince la più prepotente, esattamente come fra i mortali. Solo che a me, inguaribilmente allergico alle distinzioni di suolo, di sangue, di fede, tutto questo non sta bene. Questa fuga dalla ragione e dalla dignità, non sta bene. Non mi sono mai sentito superiore a nessuno. Il mio idolo è Muhammad Ali, stravedo per la grande boxe, il blues, il jazz. Sono serenamente consapevole che bianchi e neri hanno lo stesso cervello, ma il nero fisicamente è più elegante, più forte, più dotato. Della negritudine (speriamo non mi censurino) mi piace anche quell'impasto di appartenenza, ironia e virilità che i bianchi si sognano. Il meticciato mi è sempre parso fantasticamente inevitabile, mentre un italiano che rivendichi la purezza della razza si copre immancabilmente di ridicolo. Così come, d'altra parte, ci si copre chi vede il razzismo in ogni obiezione o, peggio, si ostina a rimuovere che una componente “razzista” è fisiologica in tutte le culture: gli africani – come i balcanici e gli slavi - si malsopportano fra etnia ed etnia, laddove i miei parenti che trascorsero qualche stagione in Zaire, intorno alla metà degli anni '70, non hanno mai dimenticato il disprezzo del quale venivano gratificati in quanto bianchi. Disprezzo fisico, etnico, di colore.
Ma anche questo non mi sconvolge: io sono immunizzato. Mi piace, insomma, la libertà, e la libertà non patisce gabbie, anzitutto mentali. Però va difesa. E chi, nel 2017, si ostina a negare che, di fronte a questi flussi migratori, un problema, anzi una emergenza, sussiste, chi risolve tutto col libro dei sogni e nessuna soluzione concreta, chi addirittura arriva a minimizzare il pericolo del fondamentalismo “perché fanno più danni gli incidenti stradali e il riscaldamento globale”, è un matto che è finito oltre la stupidità, per arenarsi nella più squallida malafede.

Commenti

  1. Praticamente hai espresso in maniera splendida quanto sta anche dentro di me.
    Quando provo a farlo mi becco sempre critiche e sfotto' da ambo le parti.

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