Se
ritorno nei posti dove ho più sofferto non ritrovo sofferenza ma
stille, acuminate e dolci, momenti sbiaditi e distratti, frammenti di
me che rimbalzano ancora prigionieri. I ricordi non sono uniformi,
hanno la forma delle strade, ogni via un ricordo. Dove sono adesso,
dove per ora mi fermo, c'è una sarabanda di musica che diventa
concreta perché ascolto quelli che conosco, amici, fratelli e su
tutti Paolo Benvegnù, uno degli ultimi col coraggio, il talento di
canzoni epiche. Lui resta, insieme a pochi altri; ma, sotto, un
aeroporto di dischi volanti che salpano e atterrano nel mio computer,
nel mio telefonino per fermarsi un poco e poi svanire. Sempre più
recupero ciò che non ho mai perduto, invecchiando lucido senza
ritegno ricordi sonori e li faccio diventare pregiati come mobili,
case dove rifugio l'anima.
Casabianca,
il non luogo dove ho speso sedici anni di niente: la via dove abitavo
mi ricorda le corse trafelate per rientrare a scrivere una cronaca di
furia sull'ennesimo delitto, spesso storie atroci. Il lungomare è
solo i dischi di Renato Zero, che aspettavo, che ascoltavo già
nell'altra vita e riascoltavo per riempire quel vuoto di vita, di
tempo, di me. L'altra strada, le feste per i Mondiali del 1982,
l'allegria senza freni, e sì che è quella dove abitava mio cugino
Daniele, che era un po' troppo buono per questo mondo e una sera
l'hanno trovato che galleggiava, addormentato nel mare. Fermo
campagna, dieci anni di matrimonio, il vento che spazzava quella casa
nel buio di inverni uguali a estati, tutto era vuoto, tutto era
lontano e più remota di tutto la gioia che fingemmo per dieci anni,
per non ammetterci morti. Mi salvò Frank Zappa, con la sua
agitazione colma di ogni mondo, mi salvò Chet Baker con la sua
tromba che cantava il dolore.
Vimodrone,
vicino Milano: dove c'era la disgraziata aziendina di mio padre
stanno, in condominio, un veterinario e un colorificio, ma io ricordo
tquell'esplosione di vita, di entusiasmo, di confusione, di sigarette
del mio vecchio, che cambiava una macchina l'anno e non per sfizio ma
perché, consumandosi, le consumava, spegneva le sigarette
direttamente sul tappetino e intanto un'altra ne brillava; aveva
montato un interruttore a filo direttamente sulla cloche, così
poteva cambiare canale della radio mentre brandiva il cambio. Una
volta rimasi un'ora ad aspettarlo in macchina, non usciva mai e dalla
radio venne fuori “La vita è adesso” di Baglioni ed io per la
prima volta mi sentii vecchio. Avevo 16 anni.
Carugate,
altro incantesimo, altro luogo del mai. Brutta, orrenda Carugate
perennemente immersa nella nebbia, nel sole colmo di zanzare in
estate, e sul ciglio della strada maledetta che portava ai laghi,
eccoci ancora, mia madre ed io, abbiamo “rubato” un carrello del
Carrefour pieno di spesa, per non doverlo vuotare, ma sul ciglio m'è
sfuggito di mano, s'è ribaltato scaricando tutta la spesa nel fosso
e mia madre s'è lasciata andare a una risata disperata, isterica,
degenerata in una pisciata addosso; rido anch'io, ma siccome
percepisco il momento, quello mio è un pianto travestito da risata.
C'erano i Police, “Ghost in the Machine”, ma non lo rimembro
volentieri.
Via
Teodosio, dove sono nato, ma mi ricordo solo pomeriggi di pioggia a
capo scoperto, col mio amico Cesare a battere i bar uno per uno per
cercare “i bottiglini”, quei mignon che va di moda collezionare
finché ne hai una distilleria e non sai più dove metterli e non sai
cosa fartene. Mi martella il cervello “Music”, di John Miles,
chissà chi la ricorda.
Via
Porpora, dove sono cresciuto e con amico Tony passavamo le giornate a
prendere per il culo tutti i negozianti fin quasi a piazza Loreto,
tutti li conoscevamo, uno per uno. Non ce n'è rimasto uno, solo
cinesi adesso, cinesi e marocchini e cingalesi, la prima ad andarsene
fu la panettiera che somigliava a Siusy Bladi e un bel giorno
trovarono la saracinesca chiusa e lei e il marito erano spariti e non
se ne seppe più niente, pare fossero pieni di debiti e chissà
perché mi tornano nelle orecchie i dischi di Lucio Dalla.
Via
Ampére, dove andavo a judo, in un posto dove c'impastavano contro
una colonna proprio in mezzo alla “palestra”, poi ci hanno fatto
un bar, figuratevi. Ma a me piaceva uscire, dopo, le ossa ancora
indolenzite, imbruniva e mi guardavo intorno in quella piscina di
verde sopra di me, che portava a Città Studi, la zona più bella di
Milano, la più bella del mondo coi suoi viali infiniti, i suoi
palazzi nobili, la sua irresistibile malinconia che mi contagiava da
bambino, per mano a mia madre. Vivaldi, le Quattro Stagioni, e una
gran voglia allora di abbracciarla, adesso di urlare.
Viale
Brianza, dove vado a scuola ogni mattina, cupo di pensieri, ma ci
vuol poco a scioglierli in cazzate, in ridere, sul sagrato di via
Beroldo dove c'è il liceo, e mi ricordo uno che credevo amico, e
questo mi ricorda il suo balcone, dentro un condominio gigantesco e
caldo come un alveare, e questo mi riporta il disco “Breakfast in
America” dei Supertramp che piaceva moltissimo a tutti e due. E poi
ho dovuto amputare il ricordo, non lasciarlo sporcare, perché quello
è uno dei dischi della vita.
Viale
Romagna, nella casa della Barbara Borsani dove facevano certe feste
che erano baccanali, mai una volta da non uscirne completamente
ubriachi, e nei vapori ancora ritrovo confusi echi di Queen, di
Rolling Stones, di Clash e tanti altri gruppi "drogati", i Ramones,
gli Anti Pasti, gli Uk Subs, un vinile con uno scheletro psichedelico
in copertina, Paolone Margherit ci viveva in simbiosi, era diventata
una sua protesi quel disco che terminava, mi ricordo, con un rutto. Entrammo con il punk, uscimmo con i Righeira, e questa è la storia breve della mia classe.
Lambrate,
piazza Gobetti. Il profumo del colore dei fiori del chiosco, di
quello dei giornali all'edicola. Piazza Gobetti accesa di piante
malate e malfamata di ragazzi più duri di me, più feroci ma ci vado
lo stesso a fare le partitelle e mi sento il campione che non sarò
mai. Via Monte Nevoso, squallida, sporca, così eccitante e bella,
pare una via di terroristi e lo è, e per me resterà sempre quella
strada dove amavo una ragazzina che non mi filava, che mi “tradiva”
con uno troppo più grande di me, uno con la macchina, un mascalzone
che se la faceva ancora bambina, e noi tutti lì, coi motorini, e ci
sono io che già mentalmente prendo appunti per libri che avrei
scritto trenta, quarant'anni dopo. Libri sul terrorismo, su quel
tempo che non capivo allora, e che tempo di spiegarmi oggi. E cascate
di Lucio Battisti, Umberto Tozzi, e tante canzoni sparse. Era sempre
estate.
Via
Carpi, la via di casa mia. Il mio cortile dove cresciamo ascoltando
roba come gli Abba, roba che non capiamo ma ci piace, entra ed esce
dal mangiadischi finché il disco si consuma, o forse sono le pile.
Via Carpi della felicità che mi ha tatuato e poi la vita ha
strappato la pelle ed è rimasta la cicatrice di nostalgia. Via Carpi
dove non avevo paura, mai, mai. Qui solo una gran corsa, lunga,
infinita, come infinita era la felicità: un bambino fragile, la
magliettina a righe, i sandali di stoffa, corre, corre, non sarà mai
uno sportivo, a scuola va meno forte degli altri ma intanto corre,
corre dentro il vento e la gente lo guarda, lui corre, corre contando
le piante, i negozi, le case, quella vita che sente sua,
quell'eternità che sente sua, corre e non si ferma fin quando non è
arrivato davanti alla sua portineria. Ansima. Ansima felicità.
e così mi sono fatta un bel giro anch'io strade che conosco paesi lombardi pieni di inquinamento e poca musica e tante corse. E quel ciclo compketo di scuola elementare, lavoro accettato per bisogno che credevo di non saper fare e che invece mi ha dato tanto. Ragazza madre con due figli segnata a dito eppur sempre a testa alta. Ciao Massimo sei lo scrigno di tanti miei ricordi e raccontati da te sono oerfino belli. Cone sta la tua mamma?
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