L'Istat ha stabilito che
per la prima volta in 5 anni gli italiani sono più felici e a me
sale come sempre il sospetto della propaganda: vecchia storia,
delineare i confini della felicità, nessuno ci è ancora riuscito, i
criteri sono burocratici, cioè avulsi e strumentali, figli della
contingenza. Parafrasando la polemica fra Benedetto Croce e Luigi
Einaudi, direi che "la felicità è una cosa spirituale" e
a questo punto non posso che rifugiarmi nel genius loci, nella
zeitgeis, nello spiritus mundi. Ovvero nel nostro irresistibile
dannato essere italiani, che comunque va sempre comparato: sarò
invecchiato io, sarò inacidito e superato, ma l'unico periodo in cui
ho respirato qualcosa di simile a una felicità collettiva sono gli
anni Settanta: la gente era contenta di tribolare, di andare al mare,
di allevare i figli e i figli, tutto sommato, di farsi allevare. Non
è che non ci fossero i problemi, era solo diverso il modo di
affrontarli, anche se già era partita quella curiosa patologia
nazionale che si chiama "tragediamento". Si rivendicava,
sì, ma alla fine prevaleva il compromesso, il buon senso,
l'ottimismo ed io confusamente sentivo che tutto quel ribollire di
rivendicazioni - e perfino di schioppettate - alla fine era un grande
gioco sociale, a volte trucido, nel quale ciascuno voleva avere un
ruolo ma nessuno o quasi ci credeva davvero fino in fondo. C'erano, e
forse era questo l'unico segreto, meno diritti, il che non significa
fossimo una società troglodita ma, più umanamente, meno isterica
nel trasformare qualsiasi pretesa in certificazione discesa dal
cielo; c'era una mentalità meno sindacale, nonostante tutto, e le
ultime foglie di ingenuità accompagnavano le nostre stagioni naif.
Un viaggio dall'altra parte del mondo non era ancora routine da
postare sui social ma un'avventura col cui ricordo si campava per la
vita che restava (infliggendolo agli altri). E una vacanza nella
scala della felicità era un 9 anche in condizioni fantozziane, e una
macchina durava quel che doveva durare. E il circolo della celebrità
si esauriva nel condominio, nella cerchia del consiglio di classe o
nella pensione d'agosto, e i cosiddetti vip non erano miraggi da
conquistare ma da lasciare dov'erano. E i fratelli minori ereditavano
i giacconi smessi dai più grandi. Una cultura dell'"usa e
ricicla", di matrice contadina, in luogo del "compera e
lamentati" che usa oggi. Ogni tanto in spiaggia qualche marito
coglione faceva il verso a una nota canzoncina esotica che usava
tanto, "A Capocabana/La donna è puttana...". La donna, che
poi era la moglie, allora si alzava serafica dal lettino e gli
piantava un micidiale colpo di nocche sulla testa: "Taci,
cretino". Nella risata generale, il macho alle tagliatelle
pativa un mancamento e doveva accorrere il bagnino coi sali. Gioco,
partita, incontro: la dignità della donna era ristabilita e nessuna
si sognava di chiamare il telefono rosa, Dagospia o l'ONU per
denunciare l'annientamento dei diritti della donna e della cittadina.
"..c'era una mentalità meno sindacale..."
RispondiEliminaE in 6 parole hai descritto questo Paese.
grazie.
Nicola