Conoscevo la moglie, Pina
Maisano, vedova di Libero Grassi. Insieme incontrammo gli studenti di
un istituto a Fermo, il Montani e mi colpì non solo la forza d'animo
quanto la certezza di un carisma in questa donna piccola e dura che
parlava con voce di granito. Una che nella Sicilia scriteriata, senza
coscienza aveva fatto una battaglia di civiltà a fianco del marito e
lo sapeva, conosceva la forza di un retaggio, noi ci abbiamo provato,
noi non siamo morti invano perché, come mi disse anche il giudice
Caponnetto, le battaglie in cui si crede non sono mai morte. Ma
ricordo anche il solito trasporto che a me finì per sembrare
fanatico, la convinzione di avere un messaggio, di potere, dovere
salvare quei giovani che ascoltavano, battevano le mani e poi se ne
fottevano altamente, a Fermo come a Bolzano come a Palermo e forse è
anche giusto così, non li puoi caricare di troppi significati, di
troppi valori i giovani, non puoi fare scontare loro una tragedia
personale e politica, è già tanto se assorbono un normale dovere di
essere normali, di non sbandare questi giovani. Ma lei Pina, come la
vedova Caponnetto, come i mille incontrati nella mia breve stagione
all'antimafia, non la pensavano così, credevano di avere in mano una
fiaccola e con quella avrebbero illuminato coscienze che non c'erano.
Naturalmente niente delle loro convinzioni, disperate perché in esse
si riassumeva il senso di una scelta definitiva, di un sacrificio
irrevocabile, sopravviveva. Non potevano essere quei ragazzotti e
quelle fanciulle un po' esaltati un po' vaporosi, come sono
fisiologicamente i ragazzi, a redimere la morte. Perché questo era
il senso di quella vanità tragica, travestita da impegno: far
rivivere gli ammazzati, tenerli vivi nei racconti, negli sguardi,
meglio le lacrime di chi ascoltava. Un gioco che a un certo punto
finii per non capire più e quindi lo abbandonai. Ma ho visto emeriti
cialtroni fare una dolente fortuna e ho visto gente più degna
perdere tutto per un ruolo da Madonna dell'antimafia, spinte da una
delirante esaltazione e dal cinismo di chi la rinfocolava. Adesso le
commemorazioni sulle vittime mi fanno orrore, specialmente quando
dirette ai cosiddetti giovani - e non ce n'è una che non lo sia.
Queste catarsi, per cui basta ricordare Libero o Giovanni o Paolo e
poi tutti a farsi i fatti propri, quando dovrebbe essere il
contrario, meno prefiche in servizio permanente effettivo, meno
cerimonie funebri e più lealtà per i vivi, queste catarsi di carta
da cui escono sceneggiati di carta, non le sopporto più. Li ho visti
da vicino, i buoni sentimenti, e non mi sono piaciuti affatto: non
stimolano virtù ma carrierismo, questa è l'unica cosa che ho sempre
visto capire dai cosiddetti giovani, "ma se questo col parente
morto ha fatto una carriera, un modo di stare al mondo, perché non
dovrei provarci io?", e in definitiva non mi sento di condannare
tanto loro, quanto chi gli offre un esempio, gli indica la strada.
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