Un intervento via Facebook sull'arte popolare di Mino Reitano raffrontata alla spocchietta indie degli attuali sedicenti artisti, accende gli animi: chi si dichiara d'accordo senza riserve, chi eccepisce rifugiandosi nel corner del de gustibus. Io non credo sia sempre questione di gusti: ci sono canoni, lineamenti critici dai quali non si scappa: la fuffa è fuffa e la nostra musica che scimmiotta regolarmente gli stilemi angloamericani è fuffa e non serve difendere un ascolto prolungato di dischi per nobilitarla: ascoltare è una cosa, capire in profondità un'altra. Tanto vero, che anche chi esalta, chi dice di ascoltare, poi non compra e i capolavori di fuffa ritornano subito alla dimensione che loro compete. Quella dell'oblio.
D'altra parte, hanno le loro ragioni anche quanti si affidano alle impressioni personali se è vero che la tecnica non è tutto, che un certo Keith Richards può permettersi di dire che lui ha il terrore di dare interviste a riviste segaiole specializzate in chitarre: “Quella è una Gibson così e cosà? Ma che ne so, so solo che quando suono funziona”.
Il solito discorso: la tecnica va bene, ma l'anima dov'è? Il blues, per dire la madre di tutte le musiche, è tecnica o anima? Si potrebbe sintetizzare hegelianamente, tecnica al servizio dell'anima, ma il fatto è che lo puoi suonare anche senza tecnica ma senza sentimento no, crolla subito, suona falso e inascoltabile. Tornando a Reitano, era uno che conosceva la musica e i suoi meccanismi, un compositore che da quelle regole sapeva cavare melodie spesso squisite, alate: come mai i genietti di oggi finiscono nel dimenticatoio appena partoriscono? Forse perché non c'è attitudine, c'è solo pretenziosità, un distaccarsi dalla matrice popolare mentre la si corteggia. Eppure, a dispetto dei fallimentari risultati, tutti vogliono suonare raffinati, colti, intellettuali, difficili, “oltre” - e non fidatevi, più lo smentiscono e più l'ambizione è quella. Sostenuti da una critica che nella migliore delle ipotesi è ignorantella, nella peggiore connivente, nella pessima tutte e due. Nessuno che dica più a nessuno “suona come mangi”. Tutt'altro, bisogna farsi piacere in punta di forchetta, facendo anche i rutti ma col dovuto sussiego. Non mi appartiene questo atteggiamento, non ho mai sopportato quello snobismo dei poveri che sceglie un idolo alla settimana e lo prende a sassate quella dopo, e disprezza – siccome la ignora bellamente - tutta una tradizione melodica al punto da fingere di rivalutarla per ironizzarci sopra. Come succedeva proprio col mite, comprensivo Mino Reitano. Io ne ho incontrata di gente, e ho visto molti limiti, tecnici, umani, professionali. Mi ricollego proprio a una recente polemica di Richards, che alcuni imbecilli hanno recepito in modo parziale per farci su del gossip, tra questi un apprendista giornalista in quel giornale di incapaci che è il Fatto: nessuno tocchi Sg. Pepper's dei Beatles “il disco più geniale della storia”! Ma, allo stesso modo in cui un pugile non si fa impressionare dai muscoli pompati dell'avversario ma ne cerca i punti deboli, altrimenti è finito, altrimenti non è un pugile, così un bluesman ha il diritto di non farsi incantare da una proposta che ritiene sopravvalutata, a patto che ne spieghi le ragioni. Si può discutere il parere di Richards, ma la sua motivazione, che poi ricalca l'eterno dilemma tra avanguardia e tradizione, non può essere omessa: quanta fuffa c'è nell'avanguardia, nello sperimentalismo? Anche qui non è facile rispondere, si parte da canoni etici-estetici e si finisce inevitabilmente nel soggettivismo ed è interessante per questo. Ma anche il parere personale deve tenere conto di risultanze oggettive, altrimenti tutto è uguale a tutto, il che non si dà né in logica, né in natura. Facciamo un esempio solo, tornando a bomba: confrontiamo la voce dei ragazzi del 1950 e dintorni, i Morandi, i Ranieri, i Reitano, le Mina, le Zanicchi, le Berti, le Martini, con quelle di oggi: qui non c'è storia, non c'è discussione, si potrà discutere sul repertorio ma quanto a mezzi (e tecnica) vocali, i vecchi battono i contemporanei cento a zero (e sarebbe da chiedersi come mai, nell'epoca del benessere, non nascono quasi più talenti vocali puri). Io, a dire il vero, qualche gran voce la conosco, per esempio la mia amica Tania Lighea: target sanremese, nazionalpopolare, si vorrà dire, ma una sera, mentre lei provava alcuni brani di inizio Novecento, abbiamo sentito un battimani fuori dalla finestra, erano turisti, stranieri, rimasti di sotto, incantati. “Ankora, preko”, ha detto una bionda teutonica. La sera dopo Tania ha fatto trattenere il fiato a milleduecento persone cantando De Sica, Tenco e Caterina Valente. Lei è una che studia, sempre studia, ma, prima, ha quel dono naturale di capire dove dirigersi, come incarnare un brano, con la voce, col corpo, e di sapere in modo matematico che la gente ci si perderà. Io l'ho vista all'opera e si poteva vedere quasi fisicamente, matericamente quel vento che cattura una platea, la lascia in apnea. Sono rimasto molto impressionato e debbo dire che non mi succede frequentemente a dispetto del gran numero di spettacoli attraversati, di tutti i generi, anche da dentro, da dietro le quinte.
Solo un altro esempio, poi giuro che la smetto. Mi onora della sua amicizia il Maestro Piero Pintucci – vi dicono niente Il Cielo, La tua Idea, Il Carrozzone, Padre Davvero e tanti altri momenti irripetibili della canzone italiana? Suo, più che di ogni altro, è un album dagli arrangiamenti pazzeschi, realmente sperimentali, come EroZero (1979). A vederlo comporre, improvvisando, e a me è capitato, uno capisce subito che la musica cosiddetta alternativa non esiste, è una scatola vuota, per quelli come Piero non è neanche, dico neanche un punto di partenza.
Tutta una ortodossia critica fortemente ideologizzata, dunque conformista, ci ha imposto per anni una scena letteraria sgangherata, più ombelicale che autoreferenziale, al limite del patologico, e ferocemente tediosa, prima di ordinarci il “contrordine compagni”, scoprendo ciò che avevamo capito benissimo da soli e cioè che non si trattava di romanzieri ma di mestieranti, riciclatori di stilemi americani, “cannibali” destinati a ridursi, come è fatalmente avvenuto, zombie precocemente invecchiati, avvizziti per le troppe canne, in caccia perenne di prebende politiche. Quanto tempo si poteva risparmiare ammettendo l'evidenza o perlomeno evitando di uniformarsi ai diktat di gente che sapeva leggere quanto sapeva scrivere, cioè per niente? La fuffa non è volatile come si pensa, è polvere che consuma il nostro tempo, la pazienza, a lungo andare l'intelligenza: perché anche il gusto è questione di sensibilità e una dieta tossica finisce per bruciarla.
C'è una economista liberal-liberista, docente in diverse università, transessuale (sul serio, non come Luxuria), Deirdre McCLoskey, che afferma senza mezzi termini l'inutilità dell'intera fase postomodernista, avanguardista, considerandola un modo per complicare inutilmente cose che non esistono, insomma il solito trucco per gonzi: se non capisco è incomprensibile, non un capolavoro, se una espressione non permette una comprensione, per quanto non immediata, è solo una perdita di tempo. Vale nell'economia, avverte McCloskey, come nell'arte. Un critico come Philippe Daverio, che ha fatto un delizioso libro sul Secolo delle Avanguardie, non sarebbe d'accordo, e con ottime ragioni, ma quanto di superfluo c'è nel Novecento e nella sua coda lunga che tuttora ci coinvolge?
Le provocazioni Dada servivano appunto come provocazioni, ma poi cosa lasciavano? La pop art è davvero un passaggio rilevante, che sdogana idee e codici espressivi, dagli oggetti ai fumetti, oppure Warhol, Lichtenstein, Wesselmann e gli altri sono prescindibili? Gli spostati sul Monte Verità erano i padri di tutti gli alternativi, gli unici ad aver capito come doveva girare il mondo, o una accozzaglia di poveri debosciati senza arte – è il caso di dirlo – né parte? Duchamp rompeva tabù con la sua Gioconda baffuta che aveva caldo al culo (e più la guardo più mi ricorda Selvaggia Lucarelli). Va bene, ma oltre alla rottura? La fuffa indie, che sprezza i Reitano, è senza dubbio di rottura, spessissimo di gran rottura, ma a parte quella, cosa lascia?
Viva la curiosità, l'apertura mentale, la cautela nel derubricare a irrilevante ciò che cambierà la storia; c'è una cultura nel capire cosa succederà, ma dovrebbe esserci anche nell'intuire quando sotto la confezione c'è il vuoto e non sarebbe male fare la tara a troppi capolavori che non reggono il tempo, pur senza la diffidenza beffarda e forse troppo facile (anche se vivaddio opportuna, in un momento di conformismo demente) di Alberto Sordi alla Biennale. Non può essere tutto da buttare o tutto da esaltare ma il difficile è salvare il salvabile. Andrebbe anche recuperata una matrice, una definizione di arte popolare, a partire dalla musica, che si sta perdendo in ambizioni che non le competono, che degenerano in astrusità infantili e questa è una malattia non meno grave delle mutazioni del mercato indotte dalle innovazioni tecnologiche. Osando una sintesi, la si potrebbe tentare così: dalla tecnica può prescindere chi, per suoi percorsi, l'ha assimilata e, forte di un talento ribadito nel tempo, può ragionare da professionista per approdare a un giudizio da dilettante: non mi incanti con i tuoi conati, con le tue pose, perché arte è perforare corazze e quel rumore fine a se stesso, di motore d'aereo o da stoviglie nell'acquaio, non porta da nessuna parte. C'è un'arte nell'arte, ed è quella di spogliarsi di tutto per cogliere la vibrazione giusta. Prescinde dalla tecnica, o ci nasci o non l'avrai mai, questo mistero che chiamano carisma lo puoi raffinare ma non inventare e neppure perdere e non ti serve vestirlo di conformismo demenziale, di quella trasandatezza studiata, griffata che ispira istintivamente le pedate nel culo. E quest'arte nell'arte prescinde dalla teoria. Chet Baker non ha mai imparato un solo accordo scritto, non sapeva letteralmente su cosa stava suonando ma “su quell'accordo che fa così” poteva costruire, improvvisando, tessiture di inusitata complessità restando sempre emozionante. Aveva una tecnica sua, suonava “come non si doveva fare”, allo stesso modo, se è lecito, dello stesso Richards. Di questi giganti dilettanti si ricorderà tutto, di molti Wynton Marsalis poco, della fuffa solo le scorie non riciclabili. D'accordo, questi sono genii, si dirà, e di genii ne nascono pochi. Sia pure, non faranno testo, ma mi servono a rimarcare un sospetto antico e cioè che ci stiamo rifugiando in un mondo anodino, pieno di tecnica – vera o più spesso millantata – senza alternative. Pieno di inutili complicazioni, come dice zia Deirdre. Non è un passatismo facile, non me la cavo con la retorica della semplicità che coincide col semplicismo, con la strategica genuinità delle care vecchie emozioni di una volta, non contesto la necessità di superare il presente facendolo invecchiare. So che altrimenti il mondo muore, so anche che l'emotività è fatta di tante suggestioni, dipende da chi la suscita ma anche da chi la riceve e risente del tempo, del luogo, della cultura. A me Mario Merola non dice niente, a un fanatico della sceneggiata tutto. Io non reggo l'opera lirica, un melomane vede in me un celenterato. Lo accetto. Ma qui la faccenda è diversa, il talento di toccare i cuori, di diventare imprescindibile si rinnova nelle forme ma o esiste o non esiste, è impalpabile ma drammaticamente concreto: la differenza si coglie sempre. Spero di avere chiarito, almeno a spanne, perché secondo me da un pezzo molti si stanno sbagliando, perché la cifra della fuffa è la noia, l'incapacità di far breccia, e quando una cosa è noiosa te ne accorgi subito, anche se non vuoi. Soprattutto se non vuoi.
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