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ROMA NEGLI OCCHI D'UN MARCHESE


Il situazionismo, comme il faut la patafisica, eventualmente se ne fottono della coerenza bottegaia: ballatoia e bigotta, così Fulvio Abbate, il Marchese Fulvio Abbate, può definirsi non più di sinistra, questa sinistra, per eccesso e insieme latitanza di sinistra, frequentare vestigia aristocratiche da marxista impenitente, faccenda che da servi della gleba e merdajoli gli possono rimproverare, allorché scatterà la giusta morale: non mi rompete il cazzo. Fiottato con l'ostinato retrogusto saraceno di uno che ha litigato anche con i bennati palermitani e però, giusta l'intuizione di Carlo Verdone nel prefazio, ti rigira Roma (affare impegnativo, al limite del suicidio) come un romano forse non può fare: perché la scopre, la riscopre ogni volta, ciclicamente, preda d'incanti anche di squallore, della vita che nell'infamia non finisce d'agitarsi. Fulvio Abbate, sia detto una volta per tutte, è nostalgico di spietato, indifeso candore, e nella sua botticella, nel suo tramvetto ti squaderna una Roma che c'è e insieme non esiste se non dai suoi occhi insofferenti, cinici, ma per gioco, sprezzanti o compatenti, comunque sempre partecipi. Sguardi umani sulla disumanità di un nonluogo che, lasciandosi fagocitare dalla storia, ne divora ogni epoca. E Fulvio non esagera, appellandosi scrittore: come pochi conosce quel diabolus in musica che è la punteggiatura, arrotando sensibilmente virgole, interpunzioni, ispirandosi al parlato nel periodare ora frammentario, essiccato ora dilatato, una quinta d'ombre che s'azzannano in un viale, miscelando i registri del triviale, del lirico, poi ancora triviale: abbonda di fica, ma, seppur contromano, giammai la infila a sproposito. Qui, padroneggia doverose doti di competenza artistica, specialmente nelle avanguardie del secolo breve, confermando virtute e canoscenza. Ora, ci sarebbe da dir niente di questa Roma sua, perché a dirne si sciupa il sogno, e invece di una e una sola cosa, qui, va dato atto a Fulvio Abbate, il Marchese: avere composto un libro d'atmosfera, laddove si spiega: un libro lo prendi, lo riponi, lo riapri, ed ogni volta hai un appuntamento non col libro, non con cosa contiene: ma con l'autore, solo con lui. Se l'autore sa tenerti per le palle e per l'anima cinque, seicento pagine, quello è un libro e questo è uno scrittore. Altrimenti, due palle. Fulvio Abbate si cimenta in un viaggio per la città più impossibile del mondo e crea un libro, un'essenza che vive, atmosfera che contiene atmosfere: cangianti e infinite, contraddittorie, patafisiche, surreali, del tempo e nel tempo ovvero fuori da ogni tempo: le sue descrizioni della città neorealista prima, sfondo di commedia feroce all'italiana in bianco/nero quindi, per aprirsi al teatro della crudeltà, ma già sconfitto, rassegnato dell'ultima stagione commediante in technicolor, sono tutt'altra cosa da effimeri selfie, sono riprese già straziate dal ricordo, che tuttavia non se ne vanno. Non se ne andranno. Ed è tutto così, ques'ottovolante in carrozzella per gli scorci della mirabile cloaca, distruzione che resiste a se stessa, eternità di squallore che si specchia e trova modo ancora di compiacersi, resistere, avvilirsi un altro po', eppure esserci. Vivere. La Roma controvento di Fulvio è qualcosa che ci resta, da compulsare prima, da riprendere ogni tanto; spesso. Per commuoversi, per rimpiangerci, anche noi che Roma la scorgiamo come uccelli di passo, ignorandone tutto oltre gli odori di fogna, di guano di spezie, e di peccato. Davvero un compagno di viaggio, anche quello che forse non farai, libro prezioso, documento di coscienza personale che s'allarga a una città che volentieri pare una antifrasi, una anticittà: forse solo lui, Fulvio Abbate, il Marchese Fulvio Abbate, poteva rivelarcela così, alla faccia di chi ci vuole male: e tutto il resto è noia. 

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