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CHEAP WINE - BEGGAR TOWN


Forse mi sbaglio, sicuramente sbaglio ma io di questo disco mi sento complice. Perché so esattamente dove e quando ha cominciato a germogliare. Nella mia cucina, una sera di un autunno fa, davanti a un vassoio di pizze. Marco Diamantini ed io ci raccontavamo le rispettive sciagure, né poche né lievi, e alla fine, come a volerle riassumere, me ne sono uscito: quando cominciate a lavorare a un nuovo album? Non lo so, mi ha risposto Marco, non so da dove cominciare, tutto è troppo contorto, ho un grumo enorme che non riesco a sciogliere, ho così tanto dolore da dire ma non posso ancora superarlo. È la tua fortuna, risposi, devi solo lasciare che esploda. Lì il fiore del male cominciò a spuntare, e quasi un calendario dopo ecco qua Beggar Town. E' il primo album di 10 dei Cheap Wine dove le parole sono più importanti della musica, dico meglio, dove la musica, mai così epica, si mette al servizio delle parole, ne diviene ancella. Di lusso, ma ancella. Perché quelle parole non sono più versi e non sono racconti, come nei dischi immediatamente precedenti. Sono diventate confessione, ammissione, resa, sconfitta e fallimento. E i fallimenti, si sa, ce li cresciamo come figli, ce li custodiamo. Sono l'unica ricchezza nostra, conquistati a fatica, col sangue della coerenza, con l'ossigeno dell'isolamento. Eccolo qua Beggar Town: “Non giudicarmi al primo ascolto, vorrei restare a lungo nei tuoi pensieri”, chiede nella sua autopresentazione il disco, confezionato con il solito doloroso commovente amore grazie anche al talento grafico di Serena Riglietti. Vaffanculo a quei loschi trafficanti degli U2 e ai loro frigidi ricatti tecnologici. Qui c'è il calore del sangue. Dodici momenti di sangue. Io continuo a insistere perché Diamantini canti in italiano, lui non vuol saperne ma insomma sono scelte, agli artisti non puoi rompergli più di tanto i coglioni. Comunque ci stanno tutte le traduzioni, così uno non si perde niente. Perché qui davvero ogni parola è spremuta per urlare, per restare, anche per giudicare. Chi siamo noi per perdonare? Chi ci crediamo di essere, e cosa diventiamo se perdiamo la facoltà del discernimento? Questo disco è una lancia spuntata, puntata e acuminata. Rossa sulla punta. 
Il seme del dolore sale dalle radici di un tempo sprecato, che si ribella al suo destino. Che riguadagna dignità, e si mostra con orgoglio in tutte le sue ferite. Lo sappiamo, l'abbiamo capito, nessuna targa per i Cheap Wine, né ieri né mai (del resto, i premi di latta sbaraccano): solo un cazzo di rapporto con un pubblico che non sarà oceanico ma è viscerale. Perché quel pubblico capisce. Perché si rispecchia. Si immerge. Quanti gruppi conosci che possano vantare anche un millesimo dello stesso legame con chi li segue? I ragazzi li conosco tutti, Marco da molto di più facciamo quindici anni almeno. Da ragazzo era un bel ragazzo, biondo, scavato, tipo quegli americani chiari, di ceppo mezzo albino. Poi si è imbruttito, specie negli ultimi due o tre anni l'ho visto accartocciarsi, segnarsi come una foresta; adesso è un uomo di mezza età tutto solcato, lo sguardo è pieno di abissi, sorride poco e le pieghe intorno alla bocca sembrano spaccargliela. Tieniteli cari questi sfregi amico mio, ti serviranno. Ti hanno portato dove altri neppure possono sognarsi, dove non sospetteranno mai. Ti portano in quelle parentesi di due ore dall'inferno che sono i concerti. Ti portano tra le fragili ebbrezze di Utrillo e Modì, fra le infangate speranze e la realtà di vetro, nella luce di chi non c'è più e nella merda di quello che c'è, che manca, che poteva esserci e che non sarà mai. Si diventa vecchi, amico mio: ma non è mica un male, se sai come farlo. Se ogni taglio serve. La tavolozza sonora non è mai stata così impiastricciata, ricca di sfumature, perfino quasi il jazz, i capricci progressive, le evocazioni sinfonico-zappiane (in coda a Your Time Is Right Now), le ballate rarefatte, le slide che allungano cavalcate elettriche, loro marchio di fabbrica, che però non inseguono più la polvere di sogni ma di incubi, sempre quel senso di bruciore anche quando vorrebbe essere dolcezza, quel ronzio di chitarra che innerva il brano eponimo, quelle tastiere che sanno essere altrettanto umbratili (è un disco di ombre lunghe questo, seppur chiede il sole, guarda il video e dimmi se mi sbaglio). Si apre su tenui dissonanze di piano e s'inoltra subito nel blues. Con un suono terso, pulito. E la voce di Marco è ormai rotta come lui; e chi cazzo ha più voglia di scherzare, casomai danzare come pupazzi grotteschi; e a questo punto suonano come professionisti senza mai perdere il meraviglioso dilettantismo che è solo dei migliori. Sbaglierò: ma suonano come se non avessero più niente da perdere. Eppure non si rassegnano, sembrano dire: perderemo, ma vi facciamo vedere come. Da mendicanti di classe, a testa alta. Lungo, più d'un'ora, per non tenersi niente dentro. Meno male che faticava a uscire, 'sto disco. E poi Beggar Town, parliamoci chiaro, mica è Pesaro o un ristorante ucciso, è l'Italia, questo lavoro è la colonna sonora di un viaggio nel Paese annaspante, pescione sull'asfalto.
Un altro album i Cheap Wine, un altro giro, e quel pubblico, poco o tanto che sia, che tiene viva l'ultima fiammella. Noi sappiamo, Marco, che se anche quella dovesse spegnersi nulla c'impedirebbe di prenderne atto e farla finita: la nostra parte qui, bene o male l'abbiamo fatta, qualcosa pure lasceremo, il Padreterno si trovi qualche altro stronzo da torturare.

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