Ogni volta che m'imbarco
per una nuova scorribanda penso sempre la stessa cosa. Che ritornerò
diverso da come ero partito, almeno un po'. Ormai lo so. Nel mio
piccolo ho tanti anni d'esperienza a nutrire questa certezza. Sono
salito (o sceso) su pedane dei posti più improbabili, per le ragioni
più diverse, coprendo tutta l'Italia. Da solo, con amici musicisti,
con testimoni di imprese o tragedie. Si parte e sai che t'aspetta una
fatica spietata, notti più bianche di un lenzuolo, interminabili
sedute al volante, cibi pesanti che non puoi rifiutare, e a volte
avresti un disperato bisogno di una doccia. E poi gli incontri con
chi ti segue da una vita o un giorno, ti chiede cose che non sai
spiegare, perchè non le sai riassumere, perché per iscritto è
meglio. Ogni volta, parto per cambiare. E non è raro che, nel
vortice di un evento, io mi senta l'uomo più solo sulla terra e non
è lo straniamento che precede il succedere, è guardarmi intorno e
vedere tutta quella gente che si agita, si sorride, si riconosce e
sentirmi inguaribilmente lontano e provare una fitta acuminata: io
non sono come voi. Poi la luce esplode e tutto dura un attimo. Ho
attraversato le situazioni più strane, i posti più sbagliati, gente
che magari per strada mi ammazzerebbe, ma le luci disperate di un
teatro improvvisato rendono possibile l'improbabile. Io, come un
amico scomparso, che stasera vado a celebrare, ho vissuto sempre
“senza maglia e senza bandiera”, non appartenendo a niente; e il
prezzo di questa libertà da buttare è proprio lo sgomento di
sentirsi sperduto in un contesto che mi avvolge ma non posso
condividere, non posso toccare.
Senza maglia, senza
bandiera. Vorrei dire che io odio le ideologie, perché le ideologie
sono cattedrali di parole che gli uomini hanno inventato per odiarsi
di più, per dividersi meglio. Ma io ho attraversato così tanti
luoghi, e percorsi, e persone, e ho imparato che, al di là di ogni
barriera, il cuore degli uomini resta lo stesso. Nutrito da trame
d'illusioni e torturato dal terrore di perderle. Solo apparentemente
distanti, fino a fingersi opposte. Non credo in niente, nello Stato,
nelle istituzioni, nella politica, non credo alla possibilità di
migliorare il mondo perché il mondo è fatto di uomini e gli uomini
restano quegli esseri fragili, bugiardi, incoerenti, spaventati e a
volte immensi che sono.
Ma io credo nei momenti.
Credo negli sguardi. Io credo nei momenti quando parto e il mondo mi
scorre davanti. Credo nell'abbraccio di Andrea Franchi, che mi
spalanca casa sua, mi presenta la sua compagna, i suoi bambini. Credo
nella sua mansarda strabordante di confusione armonica, strumenti,
mixer, computer, marchingegni e soprattutto lui, l'uomo, che plasma
meraviglie musicali, e lui è una fontana di meraviglie musicali. Se
non riesce a venire a capo di un problema, non s'incaponisce nella
ricerca di una soluzione inesistente: lui demolisce il problema. È
uno dei musicisti di maggior talento che conosco – il prossimo
disco, di cui ho assaporato parecchi stralci, non sarà prescindibile
per nessuno - e anche uno di quelli con la più grande facilità di
pensare in modo obliquo. È spiazzante. Può essere uomo di candori
sconcertanti, di entusiasmi disarmanti (“Sono un Pinocchietto”,
si schernisce), ma sul lavoro è spietato. Dovevamo mettere in piedi
questa faccenda dedicata a Carlo Petrini, ed io sono abituato ad
improvvisare sempre, quasi completamente – una traccia e via. Ma il
Pinocchietto può diventare Cerbero. Non vuole sorprese.
“Da capo”.
“Ancora”.
“Ancora”.
S'intestardisce su
minuzie impercettibili, ma arrivi al punto che ti sembrano
gigantesche e alla fine non puoi più sbagliare perché tutto dello
spettacolo ti è diventato pavloviano: d'istinto fai la cosa giusta.
Ma io pensavo: va bene, ma un margine di incertezza io lo voglio. E
sapevo che cosa avrei fatto sul palco. Avrei improvvisato, almeno in
parte, spiazzandolo. Vediamo come te la cavi, amico. Ed io credo in
quei momenti di prove notturne, ad ogni “da capo” lo spettacolo
prende forma, senso, diventa forte. Credo nell'entusiasmo di Andrea,
che non smette mai di spostar cose, prenderle, riporle, usarle, la
mansarda è una bottega, l'artigiano dei suoni ha tutto quel che
occorre e ha scoperto, mi racconta, la felicità scoperta in fondo al
buio, fatta di quel non fermarsi mai, del tenere aperta ogni porta,
di accettare ogni sfida, di amare ogni cosa che si fa, ogni progetto
che si staglia, ogni melodia che arriva. Credo nel momento che
giriamo Prato e ci trovo più cinesi che a Pechino, altro che cliché,
ma insieme alle altre etnie fanno di una cittadina di provincia una
Babele allegra, a volte tetra ma accesa, di gente che vive, suda,
parla, urla, litiga ma in queste piazzette dove la tradizione
lentamente s'arrende si respira l'atmosfera polverosa e speziata che
puoi trovare in una metropoli del mondo.
E credo nell'abbraccio,
forte, caldo, parlante, di Giorga Del Mese che mi appare da un angolo
di strada, è venuta a salutarmi mentre sto entrando a Controradio e
ci salgo scortato, da lei e da Franchi, perché, ehi, se c'è un
giornalista rock, quello sono io. E credo nel sorriso di Giustina
Terenzi che mi aspetta, debbo intervenire venti minuti nella sua
trasmissione e mi fermo un'ora e mezza. Credo nella pacca sulla
spalla di suo marito, Giuseppe Barone, e nel vederli così complici,
così affiatati. Credo nel sole del tramonto di fine maggio a Prato,
in quel correre al Camarillo per la prova generale di “Sport in
Vena”, con tutte le incertezze che debbono affiorare ad una prova,
e infatti affiorano. Credo in Michele che s'è fatto tanta strada, in
Simone che alle due di mattina mi manda via facebook la recensione di
quanto ha visto un'ora fa. Credo nello stipare la macchina di tutte
le cose da suonatori (io me la cavo con un leggerissimo Kindle, i
miei monologhi ormai li leggo tutti lì), e nel partire verso
Livorno, dove ci aspetta questo teatro ricavato da un abbandono. Sta
nel quartiere Venezia, disegnato dalle curve dell'acqua, i palazzi
antichi ci si specchiano e dietro si stagliano le navi immani del
porto. Ci aspetta questo Teatro Refugio, questo centro sociale che
pare sul punto di fare la rivoluzione da solo, rigurgita rivoluzione
ma poi chi lo anima è affettuoso con noi, quasi tenero. Credo in
Enrico che mi porta al parcheggio e ci mette i tre “eurini” per
coprirmi fino a sera. In Fabio il tecnico che mi ricorda Caparezza e
a un certo punto, quando già la notte è calata sul teatro, sulle
case, sul quartiere Venezia e su Livorno intera, mi butta lì, sui
riflessi dell'acqua accesa dai lampioni, un momento avvolto in una
frase: “Non ci si vuole più voler bene”.
Credo in quel fermento da
alverare disperato: questi tipi, ragazzi più o meno attempati,
sognano la rivoluzione ma per il momento s'accontentano di condivere
qualcosa, di stringersi in un'illusione, un sogno. Sono disperati
all'idea di perderlo, che un brutto giorno il Comune venga a
riprendersi qualcosa che solo nominalmente gli spetta. Ma questo
teatro non ha portato via niente a nessuno, non rivendica niente, non
è come l'omologo glamour di Roma, il Valle che ha sottratto una
proprietà altrui e chiama la guitteria vip perché in troppi lì
dentro debbono scavarsi la carrierina politica. Questi, un giorno di
otto anni fa, hanno riesumato un rudere, asciugandolo dei topi, del
sudiciume, inventandosi un teatrino minuscolo che fa tenerezza,
spalti in compensato e imbottiture di gommapiuma per il pubblico. Non
prendono un euro “dalle politiche”, animano stagioni
controculturali che saranno anche discutibili, ma non approfittano di
nessuno e rendono qualcosa alla città. E allora ti si gonfia il
cuore perché vedi quegli occhi inchiodati a questa vita e tu conosci
quella luce angosciata, sai che non c'è altro, e allora pensi che se
mai dovesse succedere, sarai lì, in prima fila a protestare per la
libertà di un teatro del quale probabilmente non condividi mezza
idea, ma ti ha accolto, ti ha ospitato, ti ha affidato per una sera
sogni e paure.
Credo un po' meno nel
momento di montare il palco, perché allora io divento un intruso.
Vivo, si può dire, tra musicanti ma non suono, mi limito, se riesco,
a suonar con la voce e anche se conosco la musica non so niente di
cavi, derivazioni, mixer, microfoni e faccio la figura dell'ebete
alla domanda più semplice.
Ma credo in quel momento
che dura un'ora, lo spettacolo finalmente, la prima assoluta e questa
sera andiamo proprio bene, due treni, una ventata sola, ci capiamo
con gli occhi, nessuno dei due sbaglia un'entrata, uno stacco, una
pausa, è il trionfo della disciplina di Andrea e anche un po' della
mia paraculaggine che non rinuncia a stravolgere il testo. Lo faccio
perché viaggiamo via sicuri, è qualcosa di forte, di violento, di
poetico, con musiche che da sole reggerebbero un disco. Per tutto il
viaggio ci eravamo scervellati a cercare una definizione per questa
faccenda che andiamo a proporre, reading è riduttivo, monologo
impreciso, pièce in musica contorto, alla fine abbiamo capito: non
troviamo una definizione perché non c'è, lasciamo che la trovi chi
assiste. E credo nel momento sospeso del dopo, nell'entusiasmo di
Saretta che l'ha ripreso tutto e me lo riporta ancora palpitante,
nell'abbraccio di Adriana che il ricordo del suo Carlo ha voluto
viverlo dietro al palco, nella mia commozione fatta di sfinimento e
residua adrenalina, quando mi arriva in camerino un tipo assurdo,
tarchiato, e mi attacca la polemica sugli ultras che fan bene ad
accoppare gli sbirri a botte di lavandino e si vanta, “io ci ho
avuto sei diffide”, io, che pure ho appena finito di urlare la mia
paura e la mia diffidenza verso lo Stato, vedo una nebbiolina rossa e
gli ringhio che non è il caso si prenda la settima diffida proprio
stasera, che è la peggiore, che è meglio per lui se finisce la sera
così come è cominciata, e debbo avere la faccia giusta perché
quello gira su se stesso ed esce a capoccia bassa.
E, per un momento solo,
credo pure nella ragazza che ci presta casa sua per dormire, è
dolce, simpatica e avvolta nella felpa d'ordinanza anche se fa un
caldo boia, ci alloggia in un appartamento in pieno centro storico
che io non ho neanche il coraggio di sognarmi, e nella grande sala
piena di computer s'impone un maxischermo colossale, sarà
centoquaranta pollici. Non so di chi sia effettivamente quest'altro
rifugio, molto più confortevole, probabilmente “okkupato” per
vie familiari. Un tempo queste cose mi facevano starnazzare
d'indignazione, adesso che son vecchio m'inducono una sorta di
bonario sarcasmo: chissà che fatica, convivere con questi feticci
del Capitale. Ma forse ci vedono Announo con Giulia Innocenzi, la
Giovanna d'Arco dei giovani che lottano insieme alla contessina del
Fatto Beatrice Borromeo la quale verga i suoi articoli direttamente
dal panfilo “Lotta di popolo”.
Alle due di mattina
Franchi è un Pinocchietto dalle pile ancora cariche, è sparito alla
ricerca di un panettiere, entra in casa carico di sacchetti fragranti
e non resisto, tutti dolci di forno appena sfornati, roba da perdere
la testa. Due ore dopo lui si mette a dormire ed io, tormentato come
sempre dalla cervicale, malattia da vecchi, preferisco spostarmi sul
divano. Ad occhi aperti penso che, ecco, sono cambiato ancora, dentro
di me ho stipato un'altra valigia che scoppia di sguardi, di voci, di
risate, di sgomento, di momenti, di solitudine affollata. Io credo
nei momenti e credo nella lupacchiona del centro sociale
Teatrofficina Refugio - occupato autogestito antifascista, ma a lei
non interessa, lei magra, nera, forse vecchia, gira dappertutto,
chissà se di un cane si può commentare che è un'anima in pena ma
direi di sì: la chiamo, vieni qui, bellissima che sei, le metto una
mano sulla testa, carezzandola di parole e lei mi accetta e nei suoi
occhi riconoscenti, fiduciosi, occhi oltre ogni umanità, c'è
qualcosa che mi agghiaccia, mi scaglia sul ciglio della commozione:
senza compromessi mi guarda, non smette più di porgermi la testa per
le carezze, la bocca aperta, la lingua penzoloni e allora capisco che
se un Dio c'è, se c'è un Dio che prende nota delle nostre miserie
per dimenticarsele tutte, il suo amore non può che essere
irragionevole, irrimediabile, talmente immenso da perdersi in sè
come lo sguardo di questo cane.
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