Le città sono come
persone, hanno un loro carattere e Palermo è città di carattere
paradossale e violento e di ironia ferocemente, genialmente contorta.
Così, proprio nei giorni in cui ospita il Gay Pride, scoppia la
bomba del calciatore in rapporti omo con figli di boss e la città
dell'aria che cammina e dei “mascariati” finge di sconcertarsene.
Finge ed è chiaro che finge, dev'essere chiaro che finge, in un
gioco di specchi pirandelliano, perchè a Palermo tutto dev'essere
teatro e specialmente quello che sanno anche i pupi di due anni. E
allora andiamo avanti con la sacra indignazione che non risparmia
nessuno e alla quale non crede nessuno. L'attaccante Miccoli usava
dedicare i suoi gol ai giudici antimafia uccisi dalla mafia, che poi
con le sue passioni mafiose definiva come “fango”. Tutto molto,
tipicamente siciliano, palermitano. Perché in Sicilia la mafia
comunque non la scampi, c'è se la vuoi e anche se non la vuoi, c'è
e basta e tutti anche i pupi di due anni lo sanno, se ne fanno una
ragione, ci convivono come disse una volta un ministro disgraziato
che ci rimise il posto, perché Palermo siamo noi, perché l'Italia
siamo noi e sulla sacra, ma bugiarda, indignazione non si scherza. E
questa è per l'appunto la suprema bugia dell'antimafia, che per
forza di cose dovevano avallare gli stessi Falcone e Borsellino,
dire, giurare che la mafia come tutti i fenomeni terreni prima o poi
sarebbe passata. Bella forza! Ma neppure loro si sentivano di dire
quando. La mafia non passerà, non tanto facilmente perché non è
solo una faccenda di appalti e di lupare, di riciclaggio e di faide,
è qualcosa di più sottile, è la mafiosità, intelligenza feroce,
contorta e autolesionista, che confonde ogni verità, che si frantuma
in schegge di specchi, che penetra ovunque, che inzuppa l'aria e i
muri. Della quale ho visto menar vanto anche gli stessi giudici,
riconoscendola un tratto fondamentale della propria koinè.
Dite che sono
disfattista, nichilista? Così è se vi pare, ma sono anche uno che
ci è passato, che ha toccato con mano. Ancora esaltato con la
legalità, contiguo ad una fondazione antimafia, non facevo che
passare, con tanto di scorta, da un teatro dove si recitavano balle
ad un ristorante dove ci si abbuffava e dove le vestali della
legalità offesa da Berlusconi tessevano in santa pace le loro trame
e le loro faide con l'appoggio di politici, industriali, giornalisti mafiosi, per dire gente che "conviveva" virtuosamente. Ma
soccorreva il fine sui mezzi, la ragion politica!
Una mafia in un certo
senso al quadrato quella dell'antimafia vestale, puntualmente colta
da Leonardo Sciascia, che ne venne subito maledetto. Perché in sé,
consustanziale, ma anche perché utile a costruirsi carriere con
mezzi e metodi mafiosi. Tutti mormorano, alludono su tutti
nell'antimafia inutile, tranne a chi la pratica. Cosa sono, alla
fine, se non faide tra cosche gli scazzi tra le toghe star
dell'antimafia? Cosa, i contatti con i rispettivi picciotti
giornalistici? Il figlio d'arte Massimo Ciancimino, figlio del
sindaco don Vito, quello del sacco di Palermo, uno che nascondeva
dinamite in giardino e riciclava centinaia di milioni sporchi nelle
mafie balcaniche, era, è ancora considerato la voce della legalità
antimafia da taluni sodalizi giudiziario-giornalistici che poi
sbarcano in politica, si fanno partitini personalizzati. Ciancimino è
stato sbugiardato come testimone cialtrone, un contaballe che diceva
“Faccio quello che voglio, li ho tutti in mano, Ingroia, Travaglio
e pure Santoro, posso dire e disdire, mi considerano un santo”. Ma
senza arrivare a questi imbarazzanti eccessi, tutto il fenomeno del
pentitismo alla fine non è un patto tra Stato e Antistato, tra Stato
e mafia, per limitare i danni? Gli stessi che si indignano per le
trattative mafiose, che sbandierano cartoncini rossi in luogo di
agende fantasma, sono poi quelli che esaltano le trattative coi
Ciancimino e pure quelle, all'epoca, con le Brigate Rosse che a
differenza dei mafiosi, come ha scritto qualche giudice lievemente
esaltato, “ammazzavano per motivi di particolare valore
ideologico”. Enzo Biagi fu uomo e giornalista cristallino, ma si
vantava della sua amicizia con don Masino Buscetta, detto il boss dei
due mondi, il quale non aveva mai rinnegato la mafia. In Sicilia, con
la Sicilia, è difficile orientarsi, non l'ho mai capito così bene
come quando ci andai in viaggio di nozze: già che c'ero, preparavo
un reportage per il Mucchio, esaltato dagli incontri con Caponnetto,
dalla militanza con la fondazione antimafia, poi la sera ci
scaricavano a dormire in un bell'albergo, stile coloniale, e qualcuno
mi diceva: lo sai di chi è questo posto? È della famiglia Cuffaro
e i camerieri, non li contrariare. Capitai anche al famoso Villa
Igiea di Palermo, dove e sul quale subito appresi storie allucinanti,
di Servizi segreti e mafiosi, che sui giornali non sarebbero mai
finite. Che facevo, fuggivo via urlando? O la prendevo sul ridere?
E ridevo, in modo un po'
sconsiderato come quando ci portarono davanti alla sede dell'ARS, il
Parlamento Siciliano, autentico gotha di politici mafiosi ed io,
forse ubriaco, provocavo le guardie armate all'ingresso, “Cioè voi
perquisite noialtri che entriamo? Dovreste farlo con quelli che sono
dentro, anzi perché non andate e li arrestate tutti?”. “Vada
via, che le spariamo”, mi rispondeva uno. Ma sotto il baffo
ridacchiava. Perfino l'autista del torpedone che scarrozzava noi
gitanti, se doveva farmi il piacere di allungarsi fino all'aeroporto
di Catania, lo faceva in un modo generosamente mafioso, talmente
sfumato e contorto che alla fine non potevo nemmeno ringraziarlo:
restavo lì, riconoscente e perplesso, e lui, con un ghigno
preoccupante: “Sei contento?”. Ed era la persona più buona e più
generosa dell'universo.
Ma adesso gustiamoci, per
carità, la sacra indignazione della famiglia Falcone, la sorella
dolente con in testa un buco nell'ozono e il filo di perle, come un
personaggio di Montalbano, che piange, che si agita, che convoca la
stampa e tuona dolente indignazione sul Miccoli gay-friendly e
soprattutto mafia-friendly che pure alla Vucciria i ragazzini
sapevano. E ci gusteremo la solita pisciata fluviale su MicroMega dai
paladini di Ciancimino, gonfi di indignazione nel tratteggiare
obbligatorie coordinate tra Miccoli e Dell'Utri, indi Berlusconi. Ma
io ricordo invece una immagine seppiata, ostinata, della mia Sicilia:
Dal pullman che arranca nel traffico, male
supremo di Palermo vediamo la bancarella di un vecchio, consunto e
rugoso e secco come un olivo, la cuffietta in testa: sorveglia una
paccottiglia straziante di barattoli di semi, olive, acciughe, il
mangiare povero che nessuno vuole più, una lampadina a difenderle
dal nero della notte, il vecchio che guarda lontano, forse alla sua
gioventù di pescatore come nei Malavoglia, forse al suo passato
mafioso, uno sguardo di melanconia infinita che non chiede
consolazione, uno sguardo siciliano. “Dio che pena” dice mia
moglie “chi mai ci andrà a comprare quei vasetti?”. Ma il
vecchio non è lì per quello, lui è la Sicilia che non muore e che
non vive, non spera, non chiede. Si lascia cadere addosso il cielo
omerico, il mare immenso, la mafia, il giorno e la notte e un altro
giorno, un altro sole atroce, un’altra benedizione da scontare.
Consentimi di dissentire in parte. E' tutto vero quello che tu dici. Ma è anche vero che accanto a queste realtà di cui parli, ci sono realtà che nel loro piccolo combattono la mafia e il pensare mafioso soprattutto, che non si piegano alle "raccomandazioni", che magari subiscono sulla propria pelle gli abusi di chi si crede potente, che non fugge perchè sarebbe facile fuggire, ma che rimane qui in Sicilia, quasi in trincea. Sono piccoli gruppi di persone ma anche singole persone. Forse non sull'altare della gloria ma ci stanno lo stesso.
RispondiEliminaOra, per carità, c'è la mafia, la mafia dell'antimafia (che sa essere a volte più crudele) ma c'è anche un'antimafia pulita, debole ma pulita.