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READING!
Mi hanno chiesto che
significato do al mio reading. Domanda alla quale non voglio
rispondere, perché definire è limitare ed io questo steccato invece
vorrei risparmiarmelo. Se proprio debbo fornire una coordinata,
trattandosi di un festival di filosofia, ecco, m'invento qui il
concetto di inesistenza. Il mio è un reading sull'inesistenza. Che
non vuol dire, attenzione, non esistere, ma esistere dentro. Al
crocevia tra Carmelo Bene, che si considerava immortale perché mai
nato, dunque mai esistito (e poi tutta la tematica della fonè, della
voce che resta sola ad aleggiare come presente assenza che trascende
il corpo eccetera), e Renato Zero quando era una persona seria cioè
si truccava da Pierrot: “Ci vuole coraggio, dico, per esistere”.
Per me in-esistere vuol dire essere, incastonato, in un contesto che
per definizione non c'è, non è reale, è teatrale. Sono dove non si
è. Ci sono nel non-essente. Fuor dai giochi capziosi, una
concretezza non manca: nessuno vive nella realtà così come si
comporta a teatro, nessuno va in un negozio a declamare versi e
prose, per giunta autografe, a meno di non aspettare la neurodeliri
alla fermata. Eppure per me questa parentesi di un paio d'ore
rappresenta il massimo grado di realtà, perché non altrimenti posso
essere più sincero, quindi per definzione vero, dunque reale, oltre
il limite dell'autolesionismo. È un reading punk, le schegge sono le
parole, mi sanguina l'anima.
Non voglio esaltarmi, per
carità, sto solo cercando una esemplificazione. Qui posso
permettermi di svelare l'unica cosa che ho, i miei fallimenti, che
custodisco come figli proprio perché mia unica proprietà; la
speranza, se non l'ambizione, è mandarli a rispecchiare nei
fallimenti di chi ascolta, perché così come il corpo è fatto
perlopiù d'acqua, lo spirito è fatto di dolore e il tempo di
fallimenti. Nessuno ne va immune. Dopodiché, chiudo la parentesi, ne
esco e ricomincia l'inferno quotidiano, fatto di attese nel deserto
del Tartari, di convenzioni per necessità insussistenti. Forse è
per questo che, di solito, il pubblico considera questo mio reading
non tanto bello o brutto, non con un approccio di valore, ma come,
riporto fedelmente, qualcosa che non aveva mai sentito prima. Anche
qui, nessuna esaltazione e nessuna rivendicazione. Ci arrivo tra un
inciso.
Ho detto pubblico. Ho
sbagliato, per convenzione. Io non ho un pubblico, che è un mare di
facce senza volto, capriccioso e umorale. Io ho persone che mi
seguono, e che conosco tutte, una per una. Magari non fisicamente, ma
le conosco tutte. Si sono affidate. Si sono svelate. Mi hanno
consegnato i loro fallimenti. Si sono fidate, e non posso tradirle.
Da cui l'eccesso di sincerità che a volte ferisce, che mette a
disagio. Oggi io avrò queste persone qui con me, davanti a me, e
vorrò bene a ciascuno di un affetto diverso, figlio delle tante
chiacchierate nelle sere d'inverno: molti momenti sono stati scritti
proprio pensando a loro, a questo rapporto, che, ancora una volta,
non so se c'è ma innerva la situazione, connota il reading, che, di
fatto, è una confessione e quindi un dialogo, anche se è uno solo a
parlare. Per me, una serata come questa è chiudere un cerchio:
quello della mia speranza, della mia avventura, del mio carisma che
non inseguo più: non mi credo un artista, so di essere soltanto (ma
non è poco) uno che può, per l'ultima volta, affidarsi a chi gli si
è affidato, e può avere finalmente lì davanti, vederne gli occhi,
ascoltarne i respiri. È importante per me.
Si rischia tutto così.
Si rischia la risata mentre stai piangendo, e per questo non c'è
rimedio. Alla fine, il tanto decantato impegno, il parlar di
politica, di sistemi sociali, di denunce spianate come fucili, è la
soluzione più facile e più comoda. Credete che non sappia come si
fa ad assicurarsi il trionfo in partenza, e con esso una serie di
repliche sparse per l'Italia? Basta dare addosso al potere, ai
poteri, al regime, al capitalismo, alla finanza, alla borsa. Con le
opportune amnesie ed omissioni. Con le incoerenze che fanno tanto
licenza poetica, privilegio d'artista, qualcuno che è troppo grande
per potersi restringere in un'etica. Basta fare come Celestini, il
quale dice che il capitalismo è il nostro ombrello nel culo, che al
ministero della Difesa ci vuole un pacifista, che la pazzia non
esiste, è invenzione consumistica. Formule retoriche di sicuro
effetto, ma senza fondamenti, tantopiù in un contesto artistico.
Trovate ad effetto come queste scontano la loro inattuabilità, una
certa implausibilità sognatrice ad uso e consumo dei liceali e di
chi è rimasto intellettualmente a quella fase. Attenzione, non sto
scomodando Voltaire, non tiro in ballo Pangloss, non dico che se al
ministero della Difesa anziché Gandhi c'è un generale, questo è il
migliore dei mondi possibili. Dico che le soluzioni col pizzettone
sono fricchettone ma non realizzabili, per tutta una serie di
condizioni più complesse di una trovata burlesque. Prendiamo la
pazzia: certo, è suggestivo abolirla per decreto, intestarla al
capitalismo bancario (ma dove vivono questi artisti da ventimila euro
a sera, da chi li pigliano i soldi?). Ma Celestini, così
argomentando, dimostra di non aver mai letto una riga di
neurobiologia, tanto per cominciare. Altrimenti scoprirebbe che così
non è, che “pazzi” si diventa e a volte ci si nasce pure. E
metto la pazzia tra virgolette. Perché se la follia c'è, allora
sorge il problema di definirla; di delimitarla; di considerarla:
lasciarla nei manicomi non è praticabile, è aberrante, ma non lo è
di meno fingere che non sia e sguinzagliarla nelle strade dove si
autoalimenta e si tinge di sangue. Roba un po' più complicata di uno
slogan tardosessantottino. Bisogna studiare, intanto. Poi ragionare.
Ripensarsi. Alla fine tante certezze ideologiche franano. Allora o ti
salvi con la poesia vera, ci giri intorno, lasci aperte le soluzioni
e ti guardi dentro, oppure sei falso come le tue parole. Alla fine
tutto si riduce a donare le piaghe, a trasformarle in un urlo di
gioia disperata. Chi ha le palle scrive il suo Ecce Homo. Gli
altri fanno le barricate a parole. Io non dimenticherò uno dei miei
più grandi amici, il poeta vero, poeta della vita, poeta sangiorgese
Lugano Bazzani, marxista, leninista, che mi ammoniva: ricordati
Massimo che si scrive sempre dell'uomo, ai massimi sistemi poi ci
arrivi. Ma se perdi l'uomo, non vali niente.
Ho sempre tenuto fissa in
mente questa sua lezione, e in ogni reading c'è qualcosa di Lugano.
Un altro poeta della vita, e i poeti son gente preoccupante, hanno
anime vertiginose e non puoi prendere la loro anima come un tram,
Paolo Benvegnù, mi regala una sera sottratta alla trama di ben altri
impegni per salire sul palco con questo velleitario amico che non sa
più chi è (e sfrutta un reading per dirlo), e a malapena intuisce
chi non è. Che non pretende più di imparare a leggere, ma spera
solo di regalare due ore di sé a chi si è scomodato. Non importa se
sarò un comprimario, io sono qui per chi è qui per me. Anche per
me. Questo mi basta.
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