Io e te, lo stesso pensiero... |
PAPPA E CICCIA
Fioccano
le battute, ne riporto una, cattivella: è difficile leccare il
sedere a un grillo, bisogna avere un occhio che spacca il culo ai
passeri. Càpita, che sarà mai, l'interessato, ironico com'è,
apprezzerà, mica si può sempre dare addosso al solito Minzolini. Ma
se dobbiamo essere seri, allora facciamo a capirci: l'intervista di
Travaglio a Grillo è (o dovrebbe essere) imbarazzante non perché
non contenga domande “scomode”: le domande scomode spesso sono
solo stupide, inopportune o maleducate (anche se proprio Travaglio ne
condanna sempre l'assenza nelle interviste altrui). Inoltre non
sempre si possono rivolgere. Io per esempio quando stavo al Mucchio
di padreterni ne ho incontrati tanti e di domande scomode ne ho
sempre fatte poche, perché rappresentavo un giornale al cui interno
si credevano tutti degni del Pulitzer ma che in effetti quasi nessuno
dei miei interlocutori aveva sentito nominare (e alcuni solo per
sentito dire). Ed era tutta gente di antica spocchia, ve lo
garantisco, abituata a ben altre prime pagine. Quindi non c'era
proprio il peso politico per andar lì a stuzzicare qualcuno, era già
un miracolo riuscire a spuntare un paio d'ore del prezioso tempo
sottratto al padreterno di turno e lì contavano non le domande
irriverenti ma le domande, semplicemente, con cui fare uscire un
personaggio, la sua vicenda umana prima ancora che professionale.
Così si spiega il successo di diversi incontri, per esempio con
Caponnetto o Bocca. Il quale, lo avessi mai provocato sul suo
fascismo adolescenziale, mi avrebbe giustamente buttato fuori di casa
a bastonate. Eppure, anche senza domande traumatiche, che di norma
servono solo a lisciare l'ego (o l'autopubblicità) di chi le fa,
quelle diventarono lo stesso belle interviste: per merito di chi le
concedeva, non mio che le raccoglievo. Il mio contributo stava nel
tratteggiare un ritratto, la cronaca di un incontro che diventava un
frammento di vita. Negli ultimi anni mi ero anche stancato dello
schema “domanda-risposta”, troppo meccanico, e, quando potevo
(cioè quando potevo permettermi una trasferta, anziché la solita
telefonata da barboni, visto che ormai nessuno rimborsava più
niente), preferivo inserire i dialoghi in una sorta di racconto.
Soluzione che poi venne copiata da altri, salvo scoprire che non era
così facile come sembrava. Comunque, sono sempre stato convinto che
una intervista non serva a far luce sui misteri del mondo, ma su chi
hai davanti: e questo lo puoi fare in diversi modi.
Fabio
Fazio, per esempio, è secondo molti (e qualcuno non dovrebbe proprio
parlare) uno scendiletto della pelle più morbida: io sarei anche
d'accordo, e aggiungo che ha una schiera di schiavetti che preparano
tutto per lui e che rappresenta il salotto di promozione letteraria
più importante della televisione, quindi potrebbe anche osare
qualcosa di più; però gli riconosco abilità nel mettere a suo agio
l'interlocutore, che così dà il meglio. Faccio un solo esempio, e
di quelli meno compromettenti. Chi ha una minima pratica del
mestiere, sa benissimo che un Teo Teocoli è un tipo divertente ma
difficile da maneggiare: se non gli vai a genio, si diverte a
combinarti casini. Con Fazio, divertendosi lui per primo, si lascia
andare creando situazioni televisivamente interessanti.
Capito
cosa voglio dire? Ecco: tutto questo premesso, l'intervista di
Travaglio a Grillo fa schifo perché non c'è. C'è una spaghettata
fra sodali, fra compari, che pensano a tutto tranne che alle domande
e alle risposte, pensano ad un qualcosa che travalica l'informazione,
la nega, ne prescinde. Non è neppure una marchetta (minuscola o
maiuscola, fate voi), è altro, un'operazione di smaccato lobbysmo
politico. Di quelle che al Fatto, “che per padroni ha solo i
lettori”, fanno orrore. Forse, il punto più critico sta proprio
qui. Nell'avere
fatto uscire una volta per tutte l'indifferenza, se non il cinismo,
verso i lettori con un tracotante pappa e ciccia tra due amici, faccenda che peraltro nelle
testate (non solo le minori) è consueta: con esiti a volte felici
per tutti. Io mi sforzavo di essere cordiale, se possibile senza
servilismo, con i padreterni da portare in un giornale di nicchia.
Però, una volta finita l'intervista, erano finiti anche i miei
rapporti. Lavoravo per un giornale, non per me o per il re di
Prussia. E l'intervista non doveva servire a costruire una affettuosa
amicizia.
In
questo caso, invece, la simpatica occasione conviviale è parsa
proprio un continuum, una sorta di ponte in un percorso comune
partito per tempo e che, auspicabilmente, porterà lontano.
Ovviamente nel segno della buona informazione, libera, a schiena
dritta e devota alla democrazia più incorrotta.
Commenti
Posta un commento